È Beato Padre Tiburcio Arnaiz Muñoz, “pazzo” di Gesù
Roberta Barbi – Città del Vaticano
“Mi succede che più faccio esercizi spirituali, più ho paura perché più vedo la dignità sacerdotale, più mi è chiara la mia indegnità. Ma ogni volta sento più forte la mia vocazione…”. Così scriveva Padre Tiburcio Arnaiz Muñoz ai suoi familiari durante il ritiro che precedette la sua ordinazione sacerdotale, nella nativa Valladolid il 20 aprile 1890. Un sacerdote colmo di carità, che prima fu un uomo pieno di talenti e con una fortissima volontà che un bel giorno fece l’incontro della vita: quello con il Sacro Cuore di Gesù.
Il sacerdozio: una chiamata irresistibile
Era povero, il giovane Tiburcio, rimasto orfano di padre a 5 anni e con una mamma che faceva i salti mortali per occuparsi di lui e della sorella Gregoria, come solo le mamme sanno fare. A 13 anni riuscirà a coronare il suo sogno: studiare in seminario, ma presto potrà frequentarlo solo da studente “esterno” perché dovrà aiutare a casa lavorando come sacrestano nel convento delle Domenicane dove poi entrerà la sorella, una famiglia con pochi mezzi, dunque, ma traboccante spiritualità, devozione e preghiera. Già da parroco si intravide il suo zelo fervente e anche la sete che aveva del Signore: dopo aver conseguito il dottorato in Teologia a Toledo nel 1896 decise che doveva essere il cuore di Gesù il centro della sua vita e decise di entrare nella Compagnia di Gesù: “Amo così tanto la mia gente che non la cambierei per una mitra; solo la voce di Dio ha il potere di tirarmi fuori dalla mia parrocchia”, diceva.
Diventare gesuita, una vita piena e appagata
Era il 1902 quando don Tiburcio entrò nel seminario della Compagnia di Gesù a Granada. “Non chiederò mai nulla e sarò contento di ciò che mi daranno; non rifiuterò mai nessun lavoro, non userò mai alcun pretesto…”: erano questi i buoni propositi con cui intraprese il nuovo cammino e immediatamente fu inondato di una carità tale che non poteva non mostrarla. Insegnava a leggere e scrivere ai poveri, in modo che potessero apprendere nozioni di cultura generale ma ancor più le basi elementari della nostra fede, cioè che Dio ci ama al punto di dare la sua vita per noi. E così iniziò a fare anche l’ormai padre Tiburcio: non si risparmiava quando si trattava di alleviare sofferenza e ignoranza, sia nelle case che negli ospedali, “toccando” e consolando molti cuori spezzati anche all’interno delle carceri.
Corralones e Dottrine Rurales
Con l’obiettivo di far conoscere sempre più l’amore del cuore di Gesù, a Malaga, dove visse molti anni, padre Tiburcio espresse le migliori intenzioni del proprio, di cuore. Realizzò diverse scuole e laboratori per i più poveri che abitavano nei corralones, le periferie più povere della città, dove la Chiesa non era mai entrata e i preti venivano accolti con lanci di topi morti. In seguito la sua opera missionaria si specializzò nella predicazione della Parola di Dio e negli esercizi spirituali che proponeva anche ai poveri e agli analfabeti: era nato l’originale approccio delle doctrinas rurales. Ben presto i suoi incontri divennero famosi e la sua voce una delle più amate dai bisognosi: si diceva, inoltre, che dormisse e mangiasse pochissimo intenzionato com’era a dedicare tutto il suo tempo al Signore che serviva anche con le confessioni e la preghiera personale fino a tarda notte. Una testimonianza potente e instancabile, fatta di parole, ma anche di penitenza e sacrificio.
Dimentico di sé: la morte in odore di santità
“Dio si prenderà cura del mio corpo finché vivrò credendo in lui”, rispondeva padre Tiburcio a quanti si preoccupavano vedendolo sempre più magro e con la tonaca sempre più lisa. Una fiducia e un abbandono totale che finirono per erodere irrimediabilmente la sua salute: mentre predicava la novena del Sacro Cuore di Gesù si ammalò di broncopolmonite e quel fisico, già fiaccato, che sottoponeva a prove continue, cedette. Morì nel giro di pochi giorni, il 18 luglio 1926 mormorando le parole: “Quanto è bello il cuore di Gesù”. Il dolore per la sua perdita fu grandissimo in tutti quelli che lo avevano conosciuto: il suo corpo fu esposto per tre giorni alla venerazione, già altissima, della sua gente, poi il suo feretro fu portato in processione per le vie della città, quelle stesse che lui aveva percorso tante volte guidando la processione del Cuore di Gesù. Gli onori riservatigli dalle persone, povere e ricche, furono grandi e il suo funerale partecipatissimo. È dell’allora vescovo di Malaga, nella sua omelia funebre, la definizione di padre Tiburcio come di un “pazzo di Gesù” che anche se ha lasciato la città orfana di sé, continua a guidarla e proteggerla dall’alto dei cieli.
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