Marcia di donne contro la violenza a Santo Domingo Marcia di donne contro la violenza a Santo Domingo 

Repubblica Dominicana e venti di protesta in America latina

Le diseguaglianze e le ingiustizie che sono sullo sfondo delle manifestazioni in corso in Bolivia, Colombia, Cile, Ecuador, Haiti, Nicaragua, Venezuela, sono una realtà anche nella Repubblica Dominicana. In questi mesi si è registrata tensione nella località rurale di Santa Cruz de el Seibo, a nordest della capitale. Intervista con l’economista dell’Unctad Pier Giuseppe Fortunato

Fausta Speranza – Città del Vaticano

Un gruppo di rappresentanti delle 240 famiglie campesine ha raggiunto a piedi la capitale, Santo Domingo, nei mesi scorsi e da allora cercano un vero dialogo con le istituzioni per il rispetto dei loro diritti. Negli ultimi anni la Repubblica Dominicana ha conosciuto una crescita economica abbastanza significativa ma senza adeguata distribuzione sociale. Fausta Speranza ha raggiunto telefonicamente a Santo Domingo, Pier Giuseppe Fortunato, economista dell’United Nation Conference for Trade and Development, Unctad:

Intervista con Pier Giuseppe Fortunato

R. – In vent’anni la Repubblica Dominicana è cresciuta più rapidamente di tanti Paesi sia del Caribe ma anche più in generale dell’America Latina. Nonostante ciò, è un Paese che ha delle fragilità strutturali importanti perché resta un Paese con un livello di disuguaglianza enorme, dove la mobilità sociale è pressoché nulla, c’è molta poca mobilità addirittura a livello di matrimoni; è un Paese in cui le classi più elevate continuano a rimanere chiuse per cui c’è un gruppo molto ristretto, un 5-10 per cento della popolazione, che controlla gran parte della ricchezza e che ha anche il controllo delle idee politiche. Questo maschera delle tensioni profonde che per il momento sono rimaste sottotraccia perché il Paese è cresciuto economicamente, ma non in sviluppo generale. E dire che l’altra “linea di faglia”, l’altra fragilità del Paese è rappresentata da una crescita che si è basata sostanzialmente sul debito pubblico e sugli investimenti pubblici. Quando questo non sarà più possibile – e purtroppo penso che questo possa arrivare presto, perché le condizioni dei mercati di capitali a livello globale restano poco promettenti per i prossimi anni – ho paura che si possano verificare episodi di proteste di massa anche maggiori delle tensioni attuali, cioè più simili a quello che avviene in altri Paesi della regione.

Lei si trova nella Repubblica Dominicana in un momento in cui in America Latina è caos, manifestazioni, proteste …

R. – E’ un momento caldo in tutta la regione appunto perché in molti Paesi della regione la crescita degli ultimi anni, che è stata legata soprattutto ai prezzi delle materie prime, si è arrestata. E allora quelle diseguaglianze e quei problemi di diseguaglianza che non erano stati risolti durante gli anni di crescita sono emersi in maniera molto molto consistente. Nel frattempo i Paesi non sono, da un lato, riusciti a cambiare la struttura economica, cioè non hanno diversificato la produzione trasformando l’economia adesso e portandola alla produzione di beni manifatturieri rispetto alle materie prime, e d’altro lato, una struttura di questo tipo ha facilitato il perdurare di importanti diseguaglianze. Noi, come Unctad, stiamo lavorando nella regione in maniera molto costante insieme all’Ocse e insieme all’agenzia delle Nazioni Unite che si occupa dello sviluppo dell’area latinoamericana, per cercare di facilitare la trasformazione strutturale di questi Paesi. Ora stiamo lavorando con il governo della Repubblica dominicana alla revisione della struttura istituzionale e delle politiche industriali e commerciali che possono favorire la trasformazione della struttura produttiva e capire quali sono i problemi in termini di politiche da implementare. Cerchiamo di aiutare questi governi a cambiare l’equilibrio di politiche in corso e quindi a facilitare la trasformazione strutturale dell’economia di questi Paesi che, come dicevo prima, è una priorità. Lo è come emergenza economica,   ma anche sociale, perché sta avendo ricadute importanti anche dal punto di vista del tessuto sociale.

Ci racconta qualcosa della sensazione che si ha camminando tra la gente?

R. – Camminando tra la gente avverto, rispetto all’Europa, una sensazione migliore, secondo me; cioè, qui continua a essere ottimista, la gente, sul proprio futuro. In parte penso perché, appunto, l’economia è cresciuta, e in parte anche perché l’attitudine caraibica in particolare è un’attitudine abbastanza positiva. Ma qualcosa sta cambiando, soprattutto nei quartieri più poveri. Sono a Santo Domingo, in questo momento: questa è una città dove ci sono quartieri che non hanno nulla da invidiare a quartieri di una città ricca europea, e quartieri che sono completamente emarginati. C’è un lungomare sul quale adesso sono, pieno di hotel a cinque stelle, e poi ci sono quartieri, invece, nella parte più marginale della città, che sono molto poveri. Ecco, queste differenze sono ancora più marcate di quanto non fossero prima. Si nota una maggiore disparità per la differenza dei prezzi tra una zona e l’altra, e muovendosi nella città ci si rende conto che nelle zone più povere quella possibilità, quell’ottimismo caraibico sta venendo meno.

La posizione dei vescovi

Delle ingiustizie sociali nei Paesi di America Latina e Caribe hanno parlato di recente i vescovi. Dietro alle proteste nei Paesi dell’America Latina ci sono “diseguaglianze e ingiustizie”, c’è la scelta di “dare le spalle ai poveri”. E’ quanto si legge nel “messaggio al Popolo di Dio e alle Conferenze episcopali dell’America Latina e del Caribe” emerso a conclusione dell'incontro del Celam, Consiglio episcopale latinoamericano, conclusosi il 21 novembre a Bogotà, per discutere delle manifestazioni scoppiate in Bolivia, Colombia, Cile, Ecuador, Haiti, Nicaragua, Venezuela. Nel Messaggio conclusivo si legge anche che “queste manifestazioni in molti casi sono state represse duramente”. Inoltre la presidenza del Celam ha affermato: “Solidarizziamo con il popolo e con i nostri fratelli vescovi, sacerdoti, diaconi, consacrati e fedeli laici che danno testimonianza coraggiosa della loro fede”, condannando “ogni forma di violenza e frattura sociale” e “appoggiando tutte le iniziative di dialogo per la pace che permettano di ricostruire il tessuto sociale danneggiato”.  

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13 dicembre 2019, 14:17