Coronavirus: arriva Corbevax, il vaccino economico e senza brevetto
Michele Raviart – Città del Vaticano
Lo hanno soprannominato il “vaccino per il Covid-19 del mondo”, perché è senza brevetto e costa fino a dieci volte in meno rispetto ai vaccini per il coronavirus ora in commercio. Si tratta di Corbevax, realizzato dal Texas Children’s Hospital e dal Baylor College of Medicine di Houston, negli Stati Uniti, e finora approvato dall’India che ne ha ordinate 300 milioni di dosi.
Un vaccino per tutti
È un vaccino che sfrutta la tecnologia di fermentazione proteica, molto comune e già usata per i vaccini contro l’epatite B, ed è per questo facilmente replicabile dalla maggior parte delle industrie farmaceutiche del mondo. Ha già superato due test clinici di “Fase 3” che hanno coinvolto più di tremila persone è ha dimostrato un’efficacia del 90% contro il ceppo originale di Wuhan e dell’80% conto le varianti Delta e Beta. A realizzare il vaccino, sul quale si stanno svolgendo test clinici per la variante Omicron e si sta cercando di ottenere l’autorizzazione globale da parte dell’Oms, il dottor Peter Hotez e la dottoressa Maria Elena Bottazzi, nata a Genova, cresciuta in Honduras e co-direttrice del Centro per lo sviluppo vaccinale del Texas Children’s Hospital.
Professoressa, come è nata l’idea di questo vaccino?
Noi abbiamo vent’anni di lavoro nel nostro centro di sviluppo dei vaccini per quanto riguarda le malattie tropicali, quelle cosiddette “trascurate”. Per queste medicine non ci sono incentivi e anzi sono considerate fin dall’inizio “market failure” e quindi senza possibilità di profitto. Sono vaccini che si possono sviluppare eventualmente solo con le sovvenzioni dei governi, perché sono usati più che altro per popolazioni che vivono in ambienti poveri. Sono malattie come per esempio la schistosomiasi, i parassiti intestinali o il mal di Chagas. La gente che ne soffre vive sempre malata, non è produttiva nella società e non può lavorare e un vaccino per i poveri per queste malattie neglette significa anche rompere il ciclo di povertà.
Quindi dall’esperienze che avevate su queste malattie trascurate vi è venuta l’idea di trasportare questo approccio anche al Covid-19. A che punto è questo vaccino e da quali Paesi è stato adottato?
Il nostro modello prevede, innanzitutto, lo sviluppo in laboratorio, dove produciamo queste “cellule di lievito” da cui si ricava questo vaccino. La prima partnership è stata con l’azienda indiana Biological E. Loro hanno ricevuto da noi queste cellule e hanno avviato la produzione lavorando con noi. Alla Biological E hanno fatto uno studio di fase tre che è stato un “superiority trail” di confronto con Covishield - la versione indiana del vaccino Astrazeneca, ndr - e si è visto che statisticamente è superiore con un’efficacia di più dell’80% contro le varianti Delta e Beta. Adesso si stanno facendo studi sulla variante Omicron. Sono state già comprate 300 milioni di dosi dal governo indiano e ne sono già state prodotte 200 milioni. La speranza è che loro comincino a lavorare con l’Oms per prendere l’autorizzazione globale e poi con altri Paesi per vedere se il nostro vaccino si può esportare.
Le critiche che si fanno quando si parla di vaccini senza brevetto sono due: una che economicamente non sono sostenibili e l’altra è che sono difficili da produrre senza avere le infrastrutture adeguate. Come il vostro vaccino riesce a superare questi problemi?
Si superano perché i vaccini basati sulle proteine ricombinate già si producono in grande scala mantenendo i prezzi bassi. Gavi - l’Alleanza per i vaccini nei Paesi poveri - e Unicef già comprano questi vaccini e poi li offrono ai Paesi che ne hanno bisogno e che hanno la possibilità di comprarli a prezzi modici. I vaccini proteici sono la soluzione perché l’infrastruttura per produrli è quella che già esiste di più al mondo. Non solo in India, ma qualsiasi produttore di vaccini proteici che usa il lievito ha già questa infrastruttura. Durante la pandemia è stata questa un po’ la critica. Anche se uno toglie tutti i brevetti possibili sui vaccini su base Mrna o su quelli a vettori, le infrastrutture per produrli ancora non esistono in maniera diffusa. Per quello anche i prezzi sono più alti, perché non c’è economia di scala.
Questa tecnica della fermentazione del lievito per quali vaccini viene già usata?
Epatite B, pertosse, papilloma virus… Le autorità di regolamentazione conoscono già molto bene i processi di produzione che si usano per questi lieviti e hanno già esperienza clinica. Anche le famiglie sanno che questi vaccini sono già usati in molti casi e sono stati somministrati anche ai loro bambini piccoli.
Pensa che il fatto che questa sia una tecnica più tradizionale possa superare lo scetticismo anche di chi vede nelle nuove tecniche qualcosa di cui non fidarsi completamente?
Noi pensiamo di sì. Siamo molto ottimisti perché sono vaccini che già si utilizzano per i bambini piccoli. Il fatto che, oltre ai processi sintetici, ci siano processi in certo senso un po’ “vegani”, perché le cellule di lievito utilizzano reagenti vegetali, forse toglierà un po’ di ansia in chi non capisce le altre tecnologie, anche se sappiamo bene che le altre tecnologie sono prodotte con un alto livello di qualità e si hanno già abbastanza informazioni sulla loro sicurezza. Però questo vaccino dà un’altra opzione, più che a quelli che hanno la possibilità di scegliere, a chi non ha nemmeno la possibilità di scegliere che vaccino poter prendere. Ci sono tanti Paesi che non hanno la capacità di comprare queste altre tecnologie o hanno potuto comprarne una quantità molto scarsa e hanno ancora quasi tutta la popolazione scoperta contro il Covid.
Papa Francesco costantemente, fin dall’inizio della pandemia e fin da quando si è cominciata a prospettare la possibilità dei vaccini, ha sempre parlato di vaccini accessibili per tutti. Questo vaccino, Corbevax, è stato soprannominato “il vaccino dell’umanità”. C’è anche una valenza etica, oltre che scientifica, in questa scelta che avete fatto?
Esatto. Da cattolica sono molto contenta di riaffermare quello che dice Papa Francesco. Noi, il nostro centro, le nostre istituzioni abbiamo deciso moralmente che se noi investiamo, mettiamo il nostro tempo e ci dedichiamo con passione per sviluppare questi processi è con l’intenzione che questi siano prima di tutto accessibili per quelli che ne hanno bisogno. Noi sviluppiamo questi tipi di modelli non solo affinchè gli altri imparino a riprodurli, ma anche perché alla fine arrivino alle popolazioni che veramente ne hanno necessità.
Quali saranno i prossimi passi previsti e che cosa manca per far si che questo vaccino possa essere riconosciuto a livello mondiale?
In India la prossima tappa è distribuire le 300 milioni di dosi che il governo ha già comprato. Allo stesso tempo la Biological E sta lavorando con l’Oms per ottenere l’autorizzazione globale e poter così inserire il nostro vaccino nel meccanismo covax. Poi bisogna finire gli studi per verificare se Corbevax possa essere usato come dose booster per chi ha già ricevuto altri vaccini e anche finire gli studi pediatrici. Il prossimo passo è anche quello di trovare altri partner, altri produttori. Stiamo lavorando per questo in Indonesia, in Bangladesh, in Africa per fare anche con loro quello che abbiamo fatto con Biological E. Il nostro centro poi continuerà a sviluppare prototipi per un vaccino contro il coronavirus in maniera universale in modo da essere pronti in caso di bisogno per cambiare, modificare il vaccino o crearne uno nuovo per la prossima pandemia, che speriamo non sia vicina.
Secondo lei a che punto siamo in questa pandemia?
Tutto dipenderà dalla capacità di poter vaccinare veramente nei luoghi dove adesso non c’è nessun vaccino disponibile, perché è lì che sta cambiando questo virus. Se riusciamo a incrementare questo numero di dosi disponibili e utilizzarle in più Paesi, nei prossimi sei mesi del 2022 penso che riusciremo a rompere il ciclo di questo virus. Si spera poi che rimanga la responsabilità mondiale di capire che questi sono investimenti importanti che si deve continuare a fare in anticipo nelle ricerche e nello sviluppo di prodotti per essere pronti in caso di emergenza e si veda questo come un problema mondiale e non solo nazionale o locale. I problemi vanno risolti in maniera globale per poter veramente superare queste disuguaglianze che vediamo, in cui Paesi poveri sono sempre nella speranza che qualcuno li venga ad aiutare. Bisogna dare capacità e autosufficienza a questi Paesi, in modo che loro stessi possano “decolonizzarsi” e sviluppare le proprie tecnologie in modo da poter risolvere i loro stessi problemi invece di aspettare sempre che qualcuno venga a dare loro delle soluzioni che poi costano di più.
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