Myanmar, a 7 anni dalla fuga dei Rohingya e dal loro esodo in Bangladesh
Emilio Sortino – Città del Vaticano
Il 25 Agosto 2017 le forze armate nazionali birmane, conosciute anche come Tatmadaw, iniziavano le campagne militari di rastrellamento contro la comunità Rohingya allo scopo di eradicare la comunità dalle aree sud-occidentali del Myanmar, dove risiedeva da 10 secoli. Le operazioni iniziarono come risposta agli attacchi terroristici contro l’esercito organizzati dal gruppo armato Arakan Rohingya Salvation Army (ARSA) e si trasformarono in una spirale di indicibili violenze, come confermato dal rapporto dell’ONU del settembre 2018. Sette anni dopo l’esodo dei Rohingya, la situazione è ancora drammatica. Ancora oggi, quelle centinaia di migliaia di persone che furono costrette ad abbandonare le proprie case, vivono in condizioni disumane all’interno di enormi campi profughi in Bangladesh, senza più la speranza di tornare a casa. “Fino a quando continuerà la violenza genocida della giunta – spiega ai media vaticani Cecilia Brighi, segretario generale dell’associazione ‘Italia-Birmania’ – I Rohingya non avranno alcuna possibilità di tornare ai loro villaggi.”
La guerra in Myanmar
Il dramma del gruppo musulmano si inserisce nel contesto più grande di una sanguinosa guerra civile, che vede l’esercito Tatmadaw combattere contro una miriade di gruppi etnici armati, guidati da un governo clandestino di unità nazionale democratica. E ora le forze di liberazione stanno riuscendo a ottenere il controllo del Paese, conquistando sempre più territori. “Ormai i gruppi etnici armati hanno conquistato più del 60% del Paese – dice Brighi – le forze democratiche controllano più di 73 città e molte postazioni militari strategiche sono state conquistate dall’opposizione”.
In questo momento di crisi sul piano politico e militare, l’esercito adotta ritorsioni contro la popolazione, messa in ginocchio dall’obbligo di aiutare la giunta al potere. “È in corso una durissima repressione contro tutta la popolazione dei territori riconquistati dalle forze democratiche, vengono colpiti villaggi, ospedali, scuole, chiese e monasteri – spiega ancora il segretario di Italia-Birmania – Allo stesso tempo l’esercito sta facendo un tentativo di militarizzare le comunità sotto il suo controllo. È stata approvata una legge di costrizione obbligatoria per tutta la popolazione maschile e femminile sopra i 18 anni, e ogni giorno centinaia di ragazzi vengono strappati dalle famiglie contro la loro volontà. La violenza senza scrupoli ha causato già quasi 3 milioni di rifugiati interni, mentre tutto il Paese si trova in una crisi economica pazzesca a causa dell’inflazione rampante.”
Un problema che va oltre ogni schieramento
Oggi i Rohingya si ritrovano in un tunnel senza uscita. Sentimenti etno-nazionalisti muovono la maggior parte delle numerose comunità del Myanmar, a prescindere dal loro schieramento nell’attuale guerra civile spiega Brighi: “Da una parte è in atto da tempo una strategia conclamata della giunta militare per eliminare i Rohingya dal Paese, dall’altra anche alcuni gruppi etnici armati che oggi combattono contro l’esercito per l’indipendenza, come l’Arakan Army, attaccano i villaggi Rohingya rimasti, che sono visti come degli estranei.”
La speranza della democrazia
Di fronte a questa realtà, l’unica possibilità per i Rohingya è un cambio radicale sul piano culturale del Myanmar, che può partire solo da un rinnovamento delle istituzioni politiche e giuridiche, come spiega ancora Brighi. “Lo stato delle cose si può risolvere solo con un processo di democratizzazione del Paese. Il governo di unità nazionale, che è il governo democratico clandestino messo in piedi dopo il colpo di stato, ha dichiarato di voler cancellare la vecchia legge sulla cittadinanza che escludeva esplicitamente i Rohingya. C’è la volontà di cambiare l’impostazione di fondo di tutto il sistema legislativo di Myanmar, evitando i riferimenti ai gruppi etnici”. Purtroppo, però, è la nota di rammarico di Brighi, sul piano internazionale “nessuno assume una posizione ferma sulla questione, come sa anche Papa Francesco, che vede tutti i suoi appelli per la popolazione birmana cadere nel vuoto.”
Lo sguardo al futuro
Secondo l’Unchr, il 52% dei rifugiati distribuiti nei 33 campi profughi della città di Cox’s Bazar, in Bangladesh, hanno meno di 18 anni. Ciò significa che la stragrande maggioranza è nata dentro a queste baraccopoli, senza ricordare altro che questa vita. Eppure, nonostante tutte le cicatrici accumulate negli anni, per i giovani un miglioramento potrebbe essere ormai vicino. “Purtroppo sappiamo per certo che molte di queste persone hanno subìto e subiscono violenze continue. Allo stesso tempo le condizioni e i ritmi nei campi, sono all’insegna della sopravvivenza più che della vita – conclude Cecilia Brighi – però i militari sono agli sgoccioli. Come Associazione chiediamo il supporto della comunità internazionale e dell’Europa, forti del fatto che il nuovo primo ministro bangladese Muhammad Yunus possa affrontare la situazione dei campi profughi nel Paese come ha dichiarato e possa influenzare i Paesi del Sud-Est asiatico per fare pressioni sulla giunta. La lotta per la democrazia comporta grandi impegni di natura politica, diplomatica e anche economica. Il supporto è fondamentale affinché tutto il Myanmar possa finalmente trovare pace ed equilibrio all’interno di una struttura democratica. Solo così i Rohingya riusciranno a tornare nelle loro case”.
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