Quella domanda del Papa riflessa negli occhi dei profughi
Massimiliano Menichetti
“Qualunque Paese va bene, l’unica cosa che cerco per me e per la mia famiglia è un luogo in cui vivere”. È sempre questa semplice e struggente risposta che si sente nel campo profughi di Mytilene, sull’isola di Lesvos, che oggi ospita circa duemila persone: iracheni, siriani, afghani, iraniani… fuggiti da guerra, violenze, persecuzioni, fame. Il campo, circondato dal filo spinato legato sui muri in cemento, affaccia su mare cristallo dove i cordoli artificiali di terra bloccano la risacca e l’accesso. In quel limbo di salvezza, non si lavora, si aspetta. Si attende la firma su un foglio, il permesso di soggiorno, che offre, senza alcuna certezza, la possibilità di ricominciare a vivere. Intanto in quel Campo i giorni possono diventare anni. I bambini giocano con bastoncini di legno, pezzi di ferro raccolti dove capita, con i passeggini rimasti senza ruote, con tanta fantasia. Tutti aspettavano l’arrivo di Francesco: “Un uomo saggio - dice una donna con il velo in testa e gli occhi lucidi - che porta la speranza”. Le storie in questi luoghi sono terribili: migliaia di chilometri percorsi a piedi, senza cibo, senza riparo, torture, privazioni, paura, sfruttamento. Molti hanno visto morire i propri cari, i propri amici. Un bambino guarda fisso il padre che mostra, ai giornalisti al seguito del Papa, le braccia deturpate dalle ustioni che gli hanno provocato i talebani. Dice di venire dall’Afghanistan, che non ha più nulla, che è fuggito per non morire, e per salvare la sua famiglia. Accanto la moglie gli stringe la mano. Più avanti telecamere e obiettivi puntano una donna che scoppia a piangere, mentre un uomo su una sedia a rotelle aspetta, senza scarpe, nella speranza di incontrare il Papa.
Tutto intorno i container bianchi, con i numeri identificativi, disegnano viottoli squadrati, tagliati dai fili per stendere i pochi abiti logori che ognuno possiede. Su quelle stradine posticce, fatte di sassi ci sono carrelli della spesa pieni di taniche di acqua, carrozzine, biciclette, bacinelle, barattoli, cavi, stendini e teli di plastica che coprono baracche in legno addossate alle strutture in resina. All’ingresso del Campo c’è la periferia di questo luogo, fatta di tende e rattoppi. Il Papa è venuto a stringere questa umanità, simbolo di chi viene relegato: dove il mare non ha un buon profumo, non è una strada per viaggiare o con cui giocare, ma un confine invalicabile che spesso uccide. Francesco ha attraversato il muro più difficile da infrangere, quello di cristallo: tutti possono venire e vedere la povertà, l’orrore dell’abbandono e della sofferenza, ma chi vive in posti come questo può solo guardare cosa accade davanti a sé, non può attraversare. Francesco ha spezzato questo confine, infranto questa ennesima barriera, cambiato le regole dell’egoismo, della burocrazia e d’indifferenza: toccando, ascoltando, portando con sé, chiedendo che l’uomo sia amato, che non ci si volti dall’altra parte difronte alla sofferenza. Una domanda rivolta ad ognuno di noi, riflessa negli occhi di ogni bambino, uomo e donna che chiede aiuto e che in nessun modo si può ignorare.
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