Teologi e sinodalità, alla Gregoriana confronto in libertà nella fiducia reciproca
Adriana Masotti - Città del Vaticano
Il Sinodo non è un evento, ma è un processo: Papa Francesco lo ha ricordato più volte per sottilineare che quello che la Chiesa sta vivendo non è destinato a finire nel 2024, quando in Vaticano si terrà la seconda Assemblea ordinaria dei vescovi, ma è l'avvio di un rinnovamento della vita e delle strutture ecclesiali in senso sinodale e cioè nella direzione del "camminare insieme" di tutto il Popolo di Dio. "Per una Chiesa sinodale: comunione, partecipazione e missione", il titolo di questo Sinodo al cui centro è l'ascolto dello Spirito Santo. È lui il vero protagonista capace di indicare alla Chiesa il cammino da compiere per continuare a portare il Vangelo dovunque e per incarnare "lo spirito di Dio". "Ascoltate lo Spirito Santo ascoltandovi", ha detto ancora Francesco.
Le sfide poste alla teologia dal Sinodo
Anche la teologia si sente chiamata a partecipare a questo processo di rinnovamento e di ascolto, e così per riflettere su teologia e sinodalità alla luce delle esperienze sinodali vissute fin qui dalle Chiese in tutti i continenti, la Pontificia Università Gregoriana ha promosso a fine aprile, in collaborazione con la Segreteria generale del Sinodo dei Vescovi, un Congresso internazionale con interventi di studiosi e testimonianze provenienti da Africa, Asia, America Latina, Australia e Germania. Nell'intervento di apertura, il cardinale Mario Grech, segretario generale della Segreteria del Sinodo, aveva presentato le questioni teologiche principali emerse dai lavori sinodali: il protagonismo dello Spirito Santo; il rapporto tra Popolo di Dio, pastori e vescovo di Roma; il recupero del sacerdozio comune dei fedeli; il rapporto tra Chiese particolari e Chiesa universale.
Renczes: una risposta dei teologi alla chiamata alla sinodalità
Il gesuita tedesco padre Philipp Gabriel Renczes, decano della Facoltà di Teologia della Gregoriana, racconta ai microfoni di Vatican News, le riflessioni e le prospettive emerse dalle giornate di studio:
Padre Renczes, il Congresso intendeva esplorare le condizioni perché la teologia possa chiarire a se stessa la propria vocazione alla sinodalità, per identificare percorsi di rinnovamento e porre le basi per l’attuazione di un metodo sinodale in teologia. In parole semplici, ci dice da quali esigenze siete partiti nell’ideare il programma delle tre giornate?
In realtà c'erano da parte nostra due esigenze che andavano esplorate. La prima: se c'è questa chiamata dell'intera Chiesa alla sinodalità, noi come Facoltà di Teologia non possiamo restarne fuori. Allora, in risposta a questa chiamata, vogliamo anche noi entrare in questo processo della sinodalità. La seconda esigenza era questa: abbiamo visto che nella Chiesa ci sono vari processi sinodali in corso a livello regionale, e non sempre si conoscono a sufficienza così, come Facoltà Pontificia internazionale a Roma, noi possiamo creare qui una piattaforma, come un momento di incontro e di scambio tra varie esperienze e anche visioni della sinodalità che possano almeno contribuire a comprenderci meglio gli uni gli altri.
Che cosa si intende quando si parla di vocazione della teologia alla sinodalità?
Parlando di vocazione, qui si esprime che la sinodalità non è semplicemente qualcosa che è fatta tra noi uomini, perché non è una questione semplicemente di miglioramento a livello orizzontale e sociale tra di noi, nella Chiesa. Ma la sinodalità corrisponde in ultima analisi, a questo dono di Dio, di Dio come comunione di Padre, Figlio e Spirito Santo, che ci rende partecipi in qualche modo del suo proprio modo di essere, di vivere. E allora, questo invito alla partecipazione diventa la nostra vocazione, la nostra chiamata. Dunque è un dono ricevuto da Dio e a noi viene data questa vocazione alla sinodalità in quanto appartenenti a questa comunità di teologi che condividono e si confrontano gli uni con gli altri.
Nel presentare il Congresso lei ha affermato che “la sinodalità e la teologia hanno molto in comune” per questo è importante che s’incontrino. Ci può spiegare qual è il rapporto tra loro? E se hanno molto in comune, in che modo interpretare il titolo: "La teologia alla prova della sinodalità", che dà l’idea di una sfida?
Penso che tutti percepiamo il percorso sinodale senz'altro non solo come una sfida ma come un'opportunità che però ci interroga, un'opportunità che porta con sè anche forse degli aspetti sconosciuti, dunque anche dei rischi. E si sa che ci sono tensioni per quanto riguarda l'accoglienza di questa sinodalità e questo si è già visto durante questi anni. Cosa c'è in comune? Partiamo da un dato molto semplice e cioè che tutte due, teologia e sinodalità, sono parole grosse, parole potremmo dire di un certo contenuto astratto, dunque suscettibili a interpretazioni varie e divergenti. Perché bisogna dire che non c'è la teologia, non c'è una teologia, ci sono varie teologie nel mondo e così non c'è la sinodalità, ma ci sono tanti modo di capire questa sinodalità. Quindi sono contenuti aperti ad essere realizzati in in varie modalità. Un'altra cosa che hanno in comune è che entrambe, teologia e sinodalità, richiedono anche una presa di consapevolezza perché non è così semplice dire: adesso vogliamo avere una Chiesa sinodale allora cominciamo... ci ci vuole proprio qualcuno che ci spieghi che cosa sia. E questo in gran parte lo ha fatto il Papa e lo fa la Segreteria generale del Sinodo però ci vogliono poi approfondimenti e anche approfondimenti personalizzati per cercare di comprendere meglio e anche applicare alla nostra propria situazione. Questo è il nostro pane quotidiano nella nostra Facoltà e nel processo sinodale questo riguarda la Chiesa in tutto il mondo che deve capire in se stessa e far capire a tutti i fedeli cosa vuol dire questa sinodalità.
Ecco, mi sembra di cogliere come un movimento l'una verso l'altra, cioè la teologia può aiutare la Chiesa a diventare più sinodale, ma anche la vita delle comunità cristiane può aiutare la teologia...
Secondo me lei ha detto benissimo, è proprio così, e per riprendere qualcosa che lei aveva detto prima: la teologia alla prova della sinodalità. Qui c'è innanzitutto la sinodalità come una grazia nella Chiesa, e una grazia ci viene data dall'alto non è qualcosa che produciamo in noi, non è il frutto di una nostra riflessione, è un dono che viene adesso, soprattutto tramite Papa Francesco, alla Chiesa. E noi allora accogliamo innanzitutto questo dono che diventa anche un un compito e una responsabilità e così l'abbiamo inteso quando abbiamo detto "alla prova delle sinodalità", perché noi non possiamo rimanere indifferenti o chiusi su noi stessi, ma la sinodalità ci chiama a muoverci. In questo senso c'è qualcosa di asimmetrico in questa relazione adesso, non è che la teologia dà tanto alla sinodalità quanto la sinodalità, che ci viene offerta, noi la riceviamo in quanto teologi. Tuttavia - e adesso arrivo a qualcosa che è emerso proprio in questo Congresso e che era anche qualcosa che speravo e che si è proprio verificato - e cioè il carattere dell'ospitalità, cioè la capacità di accogliere, il saper ricevere bene questo dono della sinodalità che forse può essere un contributo della teologia. Mi spiego: ordinariamente chi è chiamato a entrare nel processo sinodale lo fa subito assumendo una responsabilità, un ruolo cioè voler lavorare affinché la Chiesa diventi più sinodale, una Chiesa dell'ascolto, una Chiesa di maggiore comunione e partecipazione. E questo a volte penso che forse potrebbe impedire che questo processo sinodale si svolga anche con una certa serenità, in modo disteso, perché c'è sempre dietro una certa agenda, potremmo dire, politico ecclesiale. E invece la teologia, in un certo senso, è un ambito se vogliamo più libero, uno spazio che comunque è meno associato a un ruolo determinato da svolgere in un senso proprio politico ecclesiale e questo può aiutare molto per sviluppare un pensiero meno funzionale, meno indirizzato ad arrivare a determinati obiettivi. E qualcosa di questo è venuto fuori durante questo convegno: i vari relatori, molti di loro coinvolti a livello diocesano o delle Chiese nazionali nel processo sinodale, qui si sono trovati in una situazione di maggiore libertà così da entrare in un dialogo più libero.
Può dirci qualcosa di quanto si è vissuto al Congresso?
Sicuramente c'è stata la condivisione di esperienze dei vari processi sinodali in diversi posti del mondo, mi riferisco in modo particolare all'Assemblea continentale in Australia, oppure il cammino sinodale in Germania. Queste due esperienze che non erano così conosciute hanno creato effettivamente un allargamento di orizzonte per tutti. E questa condivisione è stata fatta in un clima molto tranquillo, senza il bisogno di una sorta di autodifesa.
Che prospettive vi siete dati? Quale compito per il futuro?
Proprio alla fine del Congresso, nel saluto di chiusura io ho detto ai partecipanti: sarebbe un peccato se questo incontro rimanesse un episodio unico, che cosa potremmo pensare per un seguito, per una certa continuità? Perchè penso che alla fine rinnovare questi incontri tra noi sarebbe un contributo per un accrescimento di fiducia reciproca, perché tra noi non ci conosciamo a sufficienza, perchè noi portiamo diverse interpretazioni e visioni della sinodalità ma per potercele comunicare gli uni con gli altri bisogna veramente creare questo clima di fiducia. E per fare questo ci vuole tempo e ci vogliono più momenti come quello che abbiamo vissuto. Questo della fiducia sarà per me un elemento fondamentale della sinodalità. È con la fiducia reciproca del Popolo di Dio che noi effettivamente possiamo camminare insieme, ma anche camminare in comunione, con lo Spirito Santo, per trovare la meta che è Gesù Cristo.
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