Chiesa sinodale, tutto il Popolo di Dio è soggetto della missione
Antonella Palermo - Città del Vaticano
Il Popolo di Dio non è la semplice somma dei battezzati ma il "noi" della Chiesa, soggetto comunitario e storico della sinodalità e della missione". È su questo presupposto contenuto nell'Instrumentum Laboris del Sinodo che il Forum "Il Popolo di Dio soggetto della missione", che si è svolto nel pomeriggio del 9 ottobre presso la Curia generalizia dei Gesuiti, a Roma, ha creato una opportunità di confronto e approfondimento. A moderare il dibattito è stata Klara A. Csiszar, docente di teologia pastorale alla Facoltà di Teologia dell'Università Cattolica di Linz, in Austria, e membro della scuola di dottorato Cultura - Religione - Società dell'Università Babes-Bolyai di Cluj, in Romania.
In missione per attrazione, senza esclusioni e nella libertà
Thomas Söding è dottore in teologia, sposato con figli. Insegna Nuovo Testamento alla Facoltà teologica cattolica della Ruhr-Universität Bochum. Ha fatto parte della Commissione Teologica Internazionale 2004-2014 e attualmente, oltre ad essere Consulente della Commissione della Fede della Conferenza Episcopale tedesca, è vicepresidente del Comitato centrale dei cattolici tedeschi (ZdK) e del Cammino sinodale della Chiesa cattolica in Germania. Da una prospettiva esegetica, ermeneutica e molto accentuata sull'ecumenismo, sottolinea che la missione è l’orizzonte della Chiesa. Ricorda come non è compito dei discepoli di Gesù controllare la fede del popolo ma renderla possibile. Non è competenza dei dodici apostoli escludere alcuno dalla comunità missionaria, afferma, perché la missione di Gesù richiede sempre una mano tesa. Pietro e Maria Maddalena sono esempi di fede missionaria come lo è stata la massaia con il suo lievito di cui si racconta nelle Scritture. “La missione è una sola – precisa Söding - ovvero annunciare il regno di Dio che si avvicina”. La missione attraverso l’attrazione è la chiave.
Secondo San Paolo, la crescita missionaria è tanto più efficace quanto più ci si riempie di fede, una fede che non può essere data mai per scontata. “Bisogna entrare in empatia con gli altri per coinvolgere, incoraggiare anche i deboli”, insiste il professore che precisa come l’apostolo “non rende i credenti dipendenti da sé ma annuncia la libertà in Cristo”. La competenza teologica, rimarca, non è un privilegio dei vescovi i quali sono un dono per la Chiesa nella misura in cui stimolano per nuove forme di partecipazione alla vita ecclesiale. Infine, precisa che sono aumentate le aspettative da parte dei fedeli laici che desiderano contribuire fattivamente e in maniera matura alla vita della Chiesa: “si aspettano di essere ascoltati e chiedono più trasparenza”.
La Chiesa, soggetto sacramentale, interprete del Vangelo qui ed ora
Ormond Rush è sacerdote, professore associato e lettore presso l'Australian Catholic University, campus di Brisbane. Eletto presidente dell'Australian Catholic Theological Association per tre mandati, è stato perito nelle due assemblee del Consiglio Plenario Australiano ed è consultore della Segreteria Generale del Sinodo dei Vescovi. Nel suo intervento sottolinea il senso inclusivo della Chiesa, inteso come intero corpo dei fedeli in cui è compresa la gerarchia. Illustra quattro aspetti: il popolo di Dio è soggetto interpretante; il popolo di Dio è un soggetto condizionato dal tempo; il popolo di Dio è situato in un luogo che è importante per incarnare il Vangelo; il popolo di Dio è un soggetto sacramentale. In virtù di queste connotazioni, Rush parla di come le prime comunità cristiane erano bisognose di interpretare il Vangelo per applicarlo nelle varie Chiese locali che via via emergevano. Vari canoni affioravano ma considerati fedeli al messaggio di Cristo. "Questo Sinodo è un soggetto interpretante che cerca con la guida dello Spirito il significato del Vangelo vivo e pieno", afferma Rush. Tempo e spazio ovviamente sono dati che plasmano la Chiesa e il Vangelo stesso.
Infine, rifacendosi al Concilio di Calcedonia del V secolo, paradigmatico, sottolinea la realtà complessa, divina e umana della Chiesa. La Lumen gentium indica che sminuire il divino può portare a vedere la sinodalità come un processo meramente democratico (la maggioranza vince); d'altra parte, sminuire l’elemento umano può portare a vedere la sinodalità come un processo meramente consultivo (solo la gerarchia può decidere). In conclusione, "dobbiamo evitare il duplice rischio" e guardare al Vaticano II per mantenere un equilibrio.
Ritrovare il legame tra diritto, teologia e vita
“Dobbiamo ritrovare il legame tra diritto, teologia e vita”, afferma Donata Horak, docente di Diritto canonico presso lo Studio Teologico Alberoni di Piacenza, affiliato all'Angelicum, e presso la Scuola di Formazione Teologica di Piacenza. Fa parte del Consiglio della Presidenza del Coordinamento delle Teologhe Italiane (CTI) ed è segretario del Coordinamento delle Associazioni Teologiche Italiane (CATI). Il suo contributo offre una puntuale disamina sull’esercizio del potere e la rappresentanza in una Chiesa sinodale. La premessa è che “qualsiasi riforma faremo, la faremo per ritrovare quella che è l’autentica originaria volontà del fondatore”, sottolinea. Il fine è infatti rendere il Vangelo credibile per relazioni giuste e una convivenza umana in cui ci ritroviamo tutti fratelli e sorelle. Anche rispondendo a una provocazione dal pubblico, Horak dice appunto che le riforme non devono essere intese "per autoconservarci, per imporci, per reiterare, per difenderci dal mondo, ma per Lui, per Cristo che cercava di liberare le vite".
Ribadisce che la Chiesa è un popolo di donne e uomini che rivestono tutti la funzione sacerdotale, profetica e regale di Cristo. Tutti sono corresponsabili alla missione e uguali in Cristo. Si sofferma sulla titolarità del potere che, afferma, “è un nodo che il diritto dovrà risolvere”. È infatti necessario, secondo la professoressa, scioglierne le contraddizioni laddove pare emergere “una sorta di doppia ecclesiologia su alcune questioni di fondo”. Dobbiamo ritrovare il fondamento della riabilitazione di ciascuno all’esercizio del potere, spiega, mettendo in luce che attualmente il Codice canonico non è chiaro su questo punto.
Superamento del binarismo consultivo/deliberativo
"L’attuale disciplina degli istituti sinodali e degli organismi di partecipazione rivela una visione minimalista della consultazione", denuncia Horak. E ricorda come nel diritto della Chiesa latina si è radicato un binarismo rigido che contrappone i Sinodi - sempre e “solo” consultivi - ai Concili, che hanno invece potere deliberativo. Questa rigida distinzione è sconosciuta al diritto delle Chiese orientali. "C’è una resistenza alla partecipazione del popolo di Dio, che va persino oltre i limiti della legge", afferma. "Se il codice fosse almeno eseguito in tutte le sue possibilità, avremmo una Chiesa molto più vitale e partecipata; ad esempio, i Concili particolari (plenari e provinciali), che hanno potere deliberativo, sono rimasti pressochè inutilizzati".
L'auspicio che esprime è che "dobbiamo riscoprire alcune dinamiche di voto deliberativo condiviso, distribuito a soggetti diversi, a organismi pluriministeriali, in ragione della competenza in materia o della situazione ecclesiale in cui si deve prendere una decisione. Il principio gerarchico va quindi ricompreso nella dinamica di relazioni ecclesiali complesse e asimmetriche, dove carismi, ministeri, uffici e competenze sono variamente distribuiti, sempre nella comunione garantita dai vescovi, che possono attribuire voto deliberativo a organismi consultivi, ai Sinodi o a commissioni pastorali".
Il nodo della rappresentanza
Gli organismi sinodali del futuro dovranno essere rappresentativi di tutto il popolo di Dio tenendo conto di professioni, competenze, caratteristiche del territorio, insiste l'esperta giurista che invita a recuperare “il senso autentico della consultazione che è davvero la condizione di ecclesialità nell’esercizio dell’autorità”, dice ancora Horak. E aggiunge che il potere deliberativo, anche se è formalmente legittimo, ha senso se è frutto di un discernimento comunitario perché la Chiesa non può essere una monarchia. In conclusione, si domanda: come procedere alle riforme del Diritto canonico che ci vengono richieste nel tempo presente, perché la legge sia al servizio della vita e della missione della Chiesa? Entrando nello specifico, "un primo passo - osserva - sarà quello di migliorare il linguaggio del codice eliminando espressioni contraddittorie rispetto all’ecclesiologia contemporanea, di rendere obbligatori ad validitatem i pareri espressi dagli organismi consultivi, di corredare ogni consiglio di una normativa sulle elezioni e le candidature, di introdurre nuovi istituti sinodali. Tante sono le possibilità che l’attuale ordinamento consentirebbe, se pienamente attuato o riformato".
La canonistica abbia una visione più coraggiosa
Potremmo osare di più, dice ancora la teologa: "In un’epoca in cui le codificazioni sono in crisi, l’ordinamento della Chiesa potrebbe ritrovare quella vitalità che appartiene alla sua tradizione, superando i rigidismi formali che si sono affermati nell’ultimo secolo. La canonistica, troppo adagiata sulla esegesi dei codici, oggi è chiamata ad avere una visione più coraggiosa e più “cattolica” (universale)". Fornire alle Chiese non dei nuovi codici, ma strumenti più snelli, che comprendano le regole procedurali perché le Chiese - precisa - possano legiferare in autonomia e darsi quelle riforme necessarie affinchè l’annuncio del Vangelo sia credibile nel loro concreto contesto culturale. Il diritto universale avrà sempre più il compito di favorire un “salutare decentramento” e una sana differenziazione della disciplina degli istituti, dei ministeri, delle strutture ecclesiastiche, fatta salva sempre la comunione che è il diritto/dovere fondamentale di ogni persona battezzata nel popolo di Dio.
La Chiesa non è padrona della missione, ma serva
A monsignor Lúcio Andrice Muandula, dal Mozambico, vescovo della diocesi di Xai-Xai, il compito di integrare il dibattito con una riflessione biblico-pastorale. Presidente della Conferenza Episcopale del suo Paese e primo vicepresidente del Simposio delle Conferenze episcopali di Africa e Madagascar (Secam), esorta il popolo di Dio ad una missione che non nasce dall'uomo ma dal Padre. Invita a uscire da sé stessi in una Chiesa che "non è padrona della missione ma serva missionaria". Ribadisce anch'egli che la Chiesa non può chiudersi in un atteggiamento autoreferenziale: "Non si tratta di compiere solo un servizio di manutenzione della comunità cristiana ma dialogare con il mondo". Un atteggiamento, questo, che si deve far crescere sin dall’iniziazione cristiana di ciascuno, come accade in Africa australe dove, spiega, la vita parrocchiale è molto innestata alle necessità pratiche dei territori.
Nello scambio di domande con l'assemblea dei presenti al Forum, è emersa la necessità di sgomberare il campo dal sospetto che parlare di Popolo di Dio, non evidenziando che si parla di 'corpo della Chiesa', significhi "scadere" in una categoria sociologica che trascura il dato divino. Un teologo e missionario pone la domanda: dov'è questo popolo missionario se poi in Chiesa ci sono poche persone? "Il motore di tutto, testimonia, di conoscersi e di fare sinodo è creare la gioia. Forse, proprio questo tratto della gioia, pare si sia ultimamente un po' perso, da recuperare anche attraverso una formazione cristiana più solida e continua".
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