P. Tullio Maruzzo e Luis Obdulio, martiri contro la corruzione
Roberta Barbi – Città del Vaticano
“Essi, come il Buon pastore, conobbero e amarono il gregge loro affidato, lo istruirono nella fede, lo nutrivano nella carità, lo custodivano dal male; annunciarono la giustizia, difesero la verità, illuminarono le coscienze e con il dono della loro vita conseguirono il frutto della pace…”. Così la gente del Guatemala e non solo prega per i suoi martiri, da oggi Beati: padre Tullio Maruzzo – al secolo Marcello – sacerdote professo dell’Ordine dei Frati Minori e Luis Obdulio Arroyo Navarro, il suo giovane catechista, dell’Ordine Francescano secolare, uccisi insieme “in odium fidei” il primo luglio 1981 mentre tornavano in parrocchia dopo un incontro di catechesi.
Padre Tullio, da gemello a fratello nella fede
Nato a Lapio, nel Vicentino, in una famiglia cristiana di 8 figli, Marcello (questo il suo nome di battesimo) aveva un fratello gemello, Daniele, con cui condivise gli studi e la vocazione. A 10 anni entrarono nel collegio serafico di Chiampo; nel 1946, vestito il saio francescano, professarono i voti di povertà, obbedienza e castità e si fecero chiamare rispettivamente Tullio e Lucio. Nel 1953 furono ordinati sacerdoti dall’allora patriarca di Venezia Angelo Roncalli, oggi San Giovanni XXIII. Un Santo esempio, quindi, fu messo così presto sul cammino di padre Tullio che come prima destinazione ebbe un orfanotrofio, mentre il gemello partì missionario quattro anni prima di lui.
Evangelizzatori… due volte
Nel 1960, finalmente, padre Tullio riuscì a realizzare il suo sogno e a partire missionario per il Guatemala. In questo Paese del centroamerica i frati erano arrivati nel XVIII secolo, ma il sorgere dei movimenti popolari che miravano a ottenere l’indipendenza dalla Spagna generarono un’ondata di violenza che portò alla soppressione di tutti gli ordini. Solo a metà del Ventesimo secolo e grazie all’operato nel Nunzio apostolico di allora, i missionari tornarono in Guatemala: seguendo, come San Francesco, la voce del Crocifisso di San Damiano, accettarono gli incarichi più difficili, recandosi nelle parrocchie rurali popolate dagli indios. Non fece eccezione padre Tullio, che fu destinato prima a Puerto Barrios, poi a Entre Rios e infine a Morales, sempre nel dipartimento di Izabal. I problemi erano più o meno ovunque sempre gli stessi: la riorganizzazione delle comunità ecclesiali, sia dal punto di vista umano che, a volte, anche fisico, costruendo da zero gli edifici delle chiese. Padre Tullio iniziò a formare nuovi catechisti che potessero aiutarlo nell’instancabile cammino da un villaggio all’altro spesso all’interno della foresta tropicale per portare in ogni angolo del territorio la Parola del Signore. Con sé, per farsi accettare, portava anche i beni che la Caritas locale gli metteva a disposizione e per questo, come pure per il suo carattere mite e sorridente e l’esempio che dava non tirandosi mai indietro davanti al lavoro, risultò subito simpatico a tutti.
Luis Obdulio, un giovane in cerca di santità
Originario di Quiriguá, nel territorio che divenne di “competenza” di padre Tullio, Luis si era sempre mantenuto molto vicino al Signore, frequentando spesso la parrocchia e prestandosi a ogni servizio di cui avessero bisogno i sacerdoti. Serviva Messa, allestiva il presepe a Natale, aiutava a organizzare le celebrazioni della Settimana Santa e coinvolgeva la sua famiglia nelle preghiere. Tutto questo aveva contribuito a tenerlo lontano dall’alcol: una piaga che affliggeva molti giovani della sua generazione. Aveva messo a servizio del prossimo anche il suo impiego come autista presso il municipio di Los Amates: non era raro vederlo accompagnare almeno per alcuni tratti nella foresta i missionari che si recavano nei più reconditi villaggi. Con padre Tullio era andato subito d’accordo e grazie a quest’incontro aderì al Terzo Ordine di San Francesco. Quando, però, la situazione peggiorò e padre Tullio fu minacciato di morte, la famiglia gli chiese di non accompagnarlo più: “Non ho paura, perché ritirarmi dal servizio parrocchiale? – ribatté Luis – Se devo morire accanto ai padri, lo considero una grazia”. Davvero la risposta di un Santo.
Padre Tullio “non denunciava, annunciava”
Questo disse di lui un parrocchiano immediatamente dopo la sua uccisione e questo era quello che aveva anche dato fastidio agli squadroni della morte guatemaltechi: il fatto che il sacerdote fosse profondamente impegnato per i poveri nella lotta contro l’analfabetismo, che considerava l’unico strumento per il riscatto della popolazione. Insegnò ai campesinos a leggere e scrivere, parlava loro del Vangelo e li erudiva anche sui loro diritti, rendendoli consapevoli dello sfruttamento di cui erano vittime e fornendo assistenza legale. Nel Guatemala di allora, infatti, molte erano le terre vergini che con il duro lavoro i contadini avevano strappato alla foresta e che ora facevano gola ai latifondisti. Nel Paese, però, esisteva una legge secondo cui se qualcuno coltivava un campo per oltre un decennio ne diventava automaticamente padrone: così gente senza scrupoli, esibendo documenti falsi e facendo leva sull’ignoranza della popolazione, espropriava terra e lavoro dei contadini gratuitamente. Padre Tullio se n’era accorto e questa era diventata la sua nuova missione, che gli valse l’accusa di “prete comunista” in un Paese in cui, dopo il golpe militare, i comunisti erano nemici da perseguitare ed eliminare.
I martiri disturbano più da morti che da vivi
A far precipitare la situazione per padre Tullio concorsero anche altre circostanze: la falsa accusa di aver impedito all’esercito la sua cruenta opera di reclutamento in uno dei villaggi indios più sperduti; la lettera scritta di suo pugno al Presidente della Repubblica contro un esproprio ai danni di 60 famiglie; il rifiuto di battezzare i figli di due militari senza la dovuta preparazione da parte dei genitori; l’assenza di richiesta di denaro per celebrare un matrimonio in chiesa mentre il Comune aveva stabilito una tassa onerosa. Basta: padre Tullio non era persona gradita e doveva morire. L’imboscata scattò una sera d’estate: i paramilitari obbligarono un ragazzino di 11 anni a fare l’autostop in piena foresta, in una zona isolata e pericolosa. L’auto guidata da Luis Obdulio che stava riconducendo padre Tullio in parrocchia, si fermò per dare un passaggio, come era solito fare. I due furono crivellati di colpi e furono lasciati a morire in mezzo alla strada. Nonostante il clima intimidatorio, la loro morte ebbe un’eco fortissima e i funerali – celebrati da 4 vescovi e da una cinquantina di sacerdoti – partecipati da centinaia di parrocchiani scesi dalle montagne per esserci. Il loro sacrificio fu tutt’altro che vano: rafforzò la Chiesa locale rendendola più consapevole della propria missione e fece fiorire molte vocazioni. Appena 27 giorni dopo, poi, in Guatemala venne ucciso un altro missionario: padre Rother, primo martire statunitense riconosciuto, salito agli onori degli altari poco più di un anno fa.
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