Missionari in Niger: tenere alta attenzione su rapimento p. Maccalli
Giada Aquilino - Città del Vaticano
A cinque settimane dal rapimento in Niger di padre Pier Luigi Maccalli, della Società delle missioni africane, la comunità cristiana del Paese africano spera che non si spengano i riflettori sulla vicenda del religioso italiano. La notte del 17 settembre a sequestrare il missionario sarebbe stato un commando di uomini armati, presunti miliziani islamici che poco prima avevano fatto irruzione nella missione Bomoanga, nel sud ovest del Niger.
La testimonianza da Niamey
Dopo tre giorni di preghiera, il 17, 18 e 19 ottobre scorsi, in cui su invito dell’arcivescovo di Niamey, mons. Laurent Djalwana Lompo, i cristiani del Paese - a larga maggioranza musulmano - hanno invocato la liberazione di padre Maccalli e la pace nella zona, a parlare con Vatican News dalla capitale nigerina è padre Mauro Armanino, coordinatore della comunità dei padri della Società delle missioni africane in Niger (Ascolta l'intervista a p. Armanino).
Padre Maccalli - è stato detto - sarebbe nelle mani di presunti miliziani islamici. Perché rapire un missionario in Niger, in questo momento?
R. - Per adesso non c’è stata nessuna rivendicazione e non è la prima volta: d’altra parte in questa zona del Sahel perlomeno 13 persone sono attualmente in mani sconosciute. Rapire un padre missionario è stato piuttosto facile, perché la persona era indifesa e mai avrebbe immaginato che potesse accadere una cosa del genere. Poi c’è da tener presente una certa risonanza di questo fatto. E inoltre non so se in prospettiva ci saranno richieste di riscatto: questo non lo sappiamo ancora. E’ possibile, però per ora non ci sono - almeno ufficialmente - notizie in tal senso.
Che zona è quella di Bomoanga?
R. - E’ una zona di frontiera col Burkina Faso, che comunque ormai da qualche mese è in preda ad attacchi ripetuti sul suo territorio da parte di gruppi cosiddetti jihadisti, di sottogruppi, di ex militari forse provenienti dal regime precedente di Blaise Compaoré. Tutti questi fattori destabilizzanti si affacciano anche in questa zona frontaliera, che non è molto controllata: si tratta di aree sperdute di savana, che d’altra parte non sempre vengono riconosciute come parti del Niger stesso. Poi c’è da dire che la popolazione della zona è formata da poveri contadini che non costituiscono “peso politico”: poche migliaia di persone di etnia Gourmantché - per le quali padre Pierluigi sta spendendo la sua vita - che sono considerate nigerine, ma fino a un certo punto, a parte il fatto che sono cristiani e quindi con un’altra tradizione e poi provenienti dal Burkina Faso.
In questo momento di difficoltà e preoccupazione, la coesione ecumenica e interreligiosa si è rafforzata?
R. – Le comunità cristiane rispondono con un certo timore, perché è un fatto che comunque non è mai accaduto nella zona. C’è stata una dichiarazione di una commissione islamo-cristiana che ha espresso solidarietà con lo slogan: “liberate Maccalli”, dichiarazione che a mio modo di vedere non rispecchia comunque più di tanto il clima che si vive nel Paese.
In questo quadro che lei a descritto cosa manca, cosa servirebbe?
R. – Che si continui a fare memoria prima di tutto, non permettendo che la vita riprenda il suo corso più o meno normale. Che si continui a fare pressione sulle autorità, ma sempre con attenzione: evidentemente non siamo a casa nostra e, pur consapevoli che c’è un confratello che è lì, non si può far nulla che possa in qualche modo poi nuocergli direttamente. Non va dimenticato infine che qualche giorno fa due confratelli missionari spagnoli hanno dovuto lasciare la loro comunità di Torodi, a 50 km da Niamey, perché c’erano timori rispetto alla loro incolumità e si trovano anch’essi a Niamey. Quindi è una situazione che non è stabile in sé. Serve essere dunque presenti, continuare comunque ad accompagnare questo processo e vedere, strada facendo, se ci sono elementi suscettibili di intervento.
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