Giappone: 10 anni fa la Beatificazione di p. Kibe e 187 compagni
Roberta Barbi – Città del Vaticano
Una giornata bellissima, nonostante il tempo inclemente, per la Chiesa giapponese, quel 24 novembre di dieci anni fa in cui salirono agli onori degli altari 188 martiri giapponesi che si andarono ad aggiungere ai 395 Beati e ai 42 Santi che la Chiesa locale già poteva vantare. Ma stavolta l’emozione era più forte perché per la prima volta la cerimonia si celebrava in Giappone e precisamente a Nagasaki, città dell’arcipelago in cui vivoni i due terzi della comunità cattolica locale. Da molto tempo era finita l’epoca dei “kakure kirisitan”, i “cristiani nascosti” di uno dei Paesi in cui i fedeli hanno pagato tra i più alti contributi di sangue nella storia recente e non, come nel caso dei 188, tutti martirizzati tra il 1603 e il 1639 in diverse città. Tra loro il padre gesuita Pietro Kasui Kibe, altri due sacerdoti della Compagnia di Gesù, un agostiniano e tanti, tantissimi laici, tra nobili, contadini, donne, bambini anche molto piccoli e perfino intere famiglie di cui le diocesi del Paese fanno memoria liturgica il primo luglio di ogni anno. Ricordiamoli insieme.
Padre Pietro Kasui Kibe, in viaggio per realizzare un sogno
Il futuro padre Pietro nacque a Urube appena 38 anni dopo lo sbarco di San Francesco Saverio in Giappone nel 1549: i suoi genitori erano convertiti di prima generazione. Iscrittosi in Seminario assieme al fratello, dopo sei anni di studi chiese di poter entrare nella Compagnia di Gesù, ma il consenso gli fu negato. Intanto, nel 1614 lo Shogun Tokugawa emise un editto con il quale si espellevano tutti i sacerdoti e i religiosi cristiani dal Paese, così fu costretto a riparare a Macao. Quando anche lì fu chiuso il Seminario dei gesuiti, Pietro intraprese un viaggio avventuroso che lo portò prima a Goa, in India, e di qui, a piedi attraverso l’antica Via della Seta, giunse in Terra Santa; poi, dopo aver visitato i luoghi dove visse Gesù, arrivò a Roma per chiedere, finalmente, l’ordinazione al Padre Generale, padre Claudio Aquaviva che, rimasto molto impressionato, lo accolse nel Seminario diocesano. Una settimana dopo divenne sacerdote nella Basilica Lateranense. Nel 1623 si rimise in viaggio, desideroso di portare la Parola del Signore ai fratelli giapponesi. Sette anni dopo, assieme ad altri due compagni, riuscì a tornare clandestinamente nel Paese e si stabilì vicino a Osaka. Nel 1639 fu arrestato a Honshu e da qui trasportato a Edo – l’attuale capitale Tokyo – dove, essendosi rifiutato di abiurare, fu ucciso con l’orribile tortura della fossa dei liquami.
Il martirio dei samurai con la Croce
La stessa sorte di padre Kasui la subirono altri due gesuiti: Giuliano Nakaura che per 19 anni svolse la sua attività di missionario nascosto in Giappone e Diogo Yuri Ryosetsu, membro dell’antica famiglia di Shogun Ashikaga, che percorse l’intero Paese per incoraggiare i cristiani e convertire gli altri, entrando addirittura nelle carceri per portare ai detenuti i Sacramenti. C’è poi anche un agostiniano, Tommaso Jihyoe, nome di battaglia “Kintsuba”, che evangelizzò di nascosto nell’omonima valle. Tutte testimonianze della Chiesa dell’andate e dell’annunciate, della realtà della Chiesa missionaria che a volte è anche la Chiesa del sangue, come ricordò 10 anni fa, ai microfoni di Radio Vaticana, il prefetto emerito della Congregazione per le Cause dei Santi, cardinale José Saraiva Martins: “È interessante ricordare che tra questi martiri giapponesi ci sono intere famiglie – disse - il loro, dunque, è un messaggio per la famiglia di oggi che è tenuta a testimoniare la fede, a viverla in profondità, genitori e figli, come una vera Chiesa domestica”.
Il Giappone dall’epoca degli Shogun a oggi
Non era un contesto facile quello in cui vivevano i primi cristiani giapponesi del 1600: c’erano naturalmente, nel Paese, stranieri che vi si recavano per questioni economiche, ma verso tutta la cultura occidentale, e quindi anche verso la religione cattolica, si nutriva una naturale diffidenza che scoppiò, poi, in aperta persecuzione dopo un’iniziale periodo di tolleranza e addirittura di fioritura. La crudeltà non risparmiò donne e bambini, uccisi da veri martiri, “in odium fidei” per il solo fatto di essere cristiani. A sacerdoti e religiosi, come abbiamo visto, era chiesto sotto tortura di rinnegare la fede a cui si erano consacrati e le esecuzioni, pur nella loro truculenza, erano pubbliche perché dovevano servire da monito al resto della popolazione. Solo un paio di secoli dopo i sacerdoti poterono tornare senza paura in Giappone e da allora molto forte è la presenza gesuita, tanto che anche padre Pietro Arrupe, di cui è stata da poco avviata la causa di Beatificazione, Superiore generale della Compagnia di Gesù dal 1965 al 1983, trascorse molto tempo nel Paese del Sol Levante.
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