Vescovi sardi: no ad armi costruite nell’isola e usate in Yemen
“Oggi, anche nella nostra Regione, abbiamo bisogno di una buona politica che faccia crescere il lavoro, un ‘lavoro libero, creativo solidale e partecipativo’. Un lavoro degno, che permetta ad ogni lavoratrice e lavoratore di tornare a casa ogni sera con la soddisfazione di aver guadagnato un pane dignitoso e di aver contribuito al progresso della società”. Lo scrivono i vescovi sardi, in un messaggio in occasione della marcia della pace in programma domani, 28 dicembre, a Villacidro, organizzata dalla Caritas della diocesi di Ales-Terralba. “Un lavoro che possa far crescere e consolidare la pace, rispettoso della vita umana e della salvaguardia del creato, come abbiamo richiamato nel nostro messaggio di ottobre 2018, ad un anno dalla Settimana sociale di Cagliari – precisano i presuli -. La produzione e il commercio delle armi non contribuiscono certo alla pace, anche se occupano molte persone e collocano in alto l’Italia nella classifica dei fabbricanti di armi”.
“La vendita e il traffico di armi costituiscono una seria minaccia per la pace”
La Chiesa - riporta l'Agenzia Sir - ha sempre sostenuto con fermezza che “la vendita e il traffico di armi costituiscono una seria minaccia per la pace”, mentre nel mondo “crescono sempre più le spese militari e si registrano ancora tanti ‘conflitti dimenticati’: lo scorso anno sono stati 378, sparsi in diverse parti del pianeta, di cui 20 classificati come guerre ad elevata intensità”.
Non si può omologare la produzione di beni necessari con quella che genera morte
Secondo i vescovi sardi, “la gravissima situazione economico-sociale non può legittimare qualsiasi attività economica e produttiva, senza che se ne valuti responsabilmente la sostenibilità, la dignità e il rispetto dei diritti di ogni persona”. In particolare “non si può omologare la produzione di beni necessari per la vita con quella che sicuramente genera morte. Tale è il caso delle armi costruite nel nostro territorio regionale e usate per una guerra, che ha causato e continua a generare nello Yemen migliaia di morti, per la maggior parte civili inermi. Un business tragico che sembra non avere nessun colpevole, poiché i vari Paesi interessati si scaricano a vicenda le responsabilità”.
Produzione in un territorio tra i più poveri del Paese
La questione, aggiungono, “diviene ancor più lacerante, sotto il profilo etico e socio-economico, poiché tale produzione avviene in un territorio, il nostro, tra i più poveri del Paese, ancora privo di prospettive per il lavoro. Così ai nostri operai si offre uno stipendio sicuro, ma essi devono subire l’inaccettabile per mancanza di alternative giuste e dignitose”. (Agenzia Sir)
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