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Cerimonia di ordinazione del nuovo arcivescovo di Mosul Cerimonia di ordinazione del nuovo arcivescovo di Mosul  

Nuovo arcivescovo di Mosul, mons. Moussa: i cristiani valorizzino la loro fede

"Non solo uomo di religione ma di relazione": è questo il ruolo di un vescovo. A Vatican News parla mons. Michaeel Najeeb Moussa che da gennaio guida la diocesi di Mosul, sua città natale. Il suo sguardo sull'Iraq di oggi e di domani è carico di speranza e di gioia: l'obiettivo è ricostruire un clima di fratellanza e di dialogo

Gabriella Ceraso - Città del Vaticano

"Nella diocesi devastata di Mosul la tua missione è di rafforzare la gioia della liberazione e stabilire la speranza di un ritorno dei cristiani": è questo l'incarico che il patriarca caldeo di Baghdad il cardinale Luois Raphael I Sako ha affidato il 18 gennaio scorso al nuovo arcivescovo caldeo di Mosul e Akra, mons. Michaeel Najeeb Moussa, domenicano. La cerimonia si è svolta nella chiesa di San Giuseppe a Baghdad e ha visto la partecipazione di numerosi leader cattolici, funzionari locali, fedeli e abitanti della regione. Il 25 gennaio poi, l'insediamento a Mosul nella Chiesa di San Paolo.

Proteggere l'eredità cristiana

Era dal 2014 che, con l'avvento dell'Isis, la diocesi di Mosul non aveva più una guida. Lo stesso padre Moussa quell'estate di cinque anni fa, di fronte all'avanzata del fondamentalismo islamico che mise in fuga centinaia di cristiani dalla Piana di Ninive, fu costretto a lasciare Mosul, sua città natale, dove si era occupato tanto anche della conservazione e della digitalizzazione di più di 800 manoscritti antichi in aramaico, arabo e altre lingue, di migliaia di libri e di lettere datate 300 anni fa. Questo enorme patrimonio, eredità cristiana, è stato per lo più messo in salvo proprio grazie all'opera della fondazione creata dal padre domenicano, l' Oriental Manuscript Digital Center, i cui archivi da Mosul erano stati spostati a Qaraqosh e poi fortunatamente a Erbil due settimane prima dell’invasione dei jihadisti.

Mosul, città martire in cui la vita rinasce

La sua esperienza di fede e la sua attività di archivista ora sono al servizio di tutta la comunità che si trova a guidare come "pastore". Raccontando a Vatican News il presente della città di Mosul e i sentimenti con cui ne ha assunto la guida pastorale, mons.Michaeel Najeeb Moussa insiste sul valore delle "relazioni", del "costruire ponti" e di seminare la "speranza". La sua città, "lacerata" e "martire", oggi - afferma - si "apre a nuova vita": la gioia viene - spiega- dal tornare a lavorare e a cooperare tutti insieme tra "minoranze cristiane, yazide, curde con i musulmani".

Ascolta l'intervista a mons.Michaeel Najeeb Moussa

Il vescovo,pastore, uomo di relazione con tutti

E il ruolo del vescovo, in uno scenario come l'attuale Mosul, è nelle parole di mons. Moussa, quello del "servitore", del "pastore", dell' "uomo di prossimità" e di relazione e non solo per i cristiani, perchè l'obiettivo - sottolinea - è quello di ricostruire un tessuto di amicizia, vicinanza e fratellanza. La testimonianza di mons. Moussa parte dalla sua città natale e dall'attività delle famiglie cristiane che ricomincia:

R. – In realtà – e tutti lo sanno – Mosul è una città martire, una città lacerata ma in mezzo a tutto questo disastro oggi la vita comincia a rinascere, e non parlo solo della ricostruzione materiale, ma della vita delle persone: lavorano, vivono e ricominciano ad allacciare rapporti con le persone, tra le minoranze cristiane, yazide, curde e le altre con i musulmani. Il mio sentimento quindi è quello di riuscire a dare gioia e vivere in maniera positiva, ottimista insieme agli altri, costruire ponti tra di noi. Per me è una cosa che mi dà felicità, una cosa positiva: il fatto che riusciamo di nuovo a vivere insieme, avviare una strada nuova. Non c’erano più cristiane e ora invece, poco a poco, le famiglie iniziano a tornare.

Quanto tempo ci vorrà per restituire vita, speranza anche ai luoghi di culto, ai cristiani dopo la lunga guerra che ha colpito Mosul?

R. – Vede, il tempo non lo si può prevedere, il tempo viene con il suo dinamismo e i suoi molti progetti. Più la gente si sente sicura, più le persone tornano; se le persone trovano un lavoro e quindi hanno di che vivere, e vivere in pace, accelereranno il loro ritorno in patria. Personalmente, credo che in capo a un anno saranno già molti i cristiani che saranno tornati; già i professori, gli studenti e le studentesse all’università iniziano a fare la spola con Erbil e i villaggi intorno a Mosul. Queste famiglie sono state invitate a tornare, a cercare la loro casa, ristrutturarla e vivere sul posto invece di fare su e giù. Ecco: proviamo a rilanciare la vita, ora che c’è la pace e la possibilità di trovare un lavoro e la serenità.

Cosa significa per lei essere vescovo in un teatro di guerra e di violenza?

R. – Essere vescovo significa sicuramente essere un servitore, un pastore, una persona che è “prossima”. Non sono vescovo soltanto per i cristiani, sono anche amico, sono molto vicino ai musulmani che vivono lì: anche loro hanno molto sofferto sotto il sedicente Stato islamico. L’importanza di essere un vescovo risiede, oggi, nell’essere un uomo che si relaziona, un uomo di contatto, un uomo accessibile a tutti.

Sappiamo che lei è anche un archivista molto esperto, che ha tutelato e protetto il patrimonio culturale cristiano e non dalla violenza dei fondamentalisti. Cosa rimane del ricco patrimonio cristiano e che cosa, invece, abbiamo perso?

R. – Quello che abbiamo potuto salvare come archivio e come manoscritti sono migliaia di documenti importanti. Li abbiamo potuti salvare in extremis prima dell’entrata del Daesh a Mosul, a Qaraqosh e nella Piana di Ninive: li abbiamo messi in salvo. Migliaia di documenti, l’archivio, la corrispondenza e anche oggetti da museo che siamo riusciti a salvare all’ultimo minuto: oggi ci sono, ancora, sono là … Quello che invece abbiamo perso ammonta forse al 20-25% rispetto a quello che hanno perso le molte altre chiese che non hanno avuto il tempo di mettere in salvo il patrimonio che conservavano nel vescovado, nelle chiese o nelle case private. Questa perdita, per fortuna, non è stata troppo grande perché per fortuna ne esistevano anche delle copie. Quindi in realtà si sono conservate delle tracce di quell’archivio che fisicamente è andato perduto. Ho lavorato per 30 anni negli archivi e alla preservazione del patrimonio cristiano, musulmano, yazida e di altre comunità. Oggi è giunto il tempo di lavorare con le persone, perché è importante lavorare con i libri e con gli uomini perché vanno di pari passo. Come accade a un albero che non vive senza le sue radici, e le radici sono la nostra storia, il nostro archivio. Ecco perché oggi stiamo lavorando insieme per sensibilizzare la popolazione di Mosul a preservare e conservare il suo patrimonio.

Qual è il suo auspicio, oggi, come arcivescovo, per tutto l’Iraq?

R. – Che i cristiani rimangano; e che Dio benedica tutti quelli che se sono andati, ma quelli che sono qui faranno sì che la Chiesa si riprenderà, e pure con tanto dinamismo. Sono duemila anni che i cristiani vivono in questa terra di Mesopotamia, e continueranno a vivere qui per sempre. Sono molto fiducioso e spero che i cristiani possano anche valorizzare la loro fede e viverla ovunque, in Iraq, e non finire rinchiusi in un ghetto qua e là perché essi sono come il sale della terra e la luce del mondo – come dice Cristo – perché noi possiamo rendere testimonianza a tutta la popolazione.

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30 gennaio 2019, 12:01