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25 anni dopo, dalle terre della camorra alle terre di don Diana

Per le strade di Casal di Principe, ventimila in marcia nell’anniversario dell’omicidio del parroco di San Nicola di Bari, ucciso in Chiesa prima della messa per aver detto che “la camorra è terrorismo” e per il suo impegno con i giovani. Il procuratore antimafia: c’era paura anche a dire “clan dei casalesi”. Il vescovo di Aversa: “non fermiamoci, il male è sempre in agguato”

Alessandro Di Bussolo – Casal di Principe (Caserta)

Il 19 marzo di 25 anni fa, quando don Peppino Diana,  il giovane parroco di San Nicola di Bari a Casal di Principe, veniva ucciso da un killer della camorra nella sua sacrestia cinque minuti prima dell’inizio della Messa di san Giuseppe, questa era la terra del clan dei casalesi. Nel 1994, quando qui si sparava anche davanti alla stazione dei carabinieri Federico Cafiero De Rao, oggi procuratore nazionale antimafia, era un giovane magistrato che raccoglieva la testimonianza di Augusto Di Meo, fotografo e amico di don Peppe, che quella mattina alle 7 era andato a fare gli auguri per l’onomastico al 36enne sacerdote, capo scout e assistente dei foulard bianchi. Si erano abbracciati ed erano ancora insieme alle 7.25, quando un soldato della camorra entrò chiedendo: “Chi è don Peppe”. Al “Sono io” del prete, gli scaricò in faccia cinque colpi di pistola e il parroco morì tra le braccia dell’amico Augusto.

Il coraggio del testimone che era accanto a don Peppe

Venticinque anni fa il killer aveva risparmiato il testimone Di Meo perché era sicuro che mai lo avrebbe denunciato, e invece Augusto andò dai carabinieri e raccontò tutto, permettendo la cattura del sicario, poi pentito, e anche la condanna dei mandanti.  Fu un atto di grande coraggio, perché 25 anni fa qui, ricorda oggi il procuratore Cafiero alla presentazione di un francobollo delle Poste Italiane dedicato a don Diana, c’era paura perfino a pronunciare la parola “clan dei Casalesi”. Quel 19 marzo 1994, ricorda oggi Augusto Di Meo a Vatican News, “cinque colpi di arma da fuoco non hanno fermato la voce di don Peppe, che è continuata anche con la testimonianza. Si è avuto modo di accertare la verità, perché la macchina del fango all’epoca aveva distrutto anche la sua figura. Oggi viviamo in queste terre che non sono più terre di camorra bensì terre di don Peppe Diana, con beni confiscati, ridati alla comunità, e un popolo in cammino che riesce a rialzare la testa. Il suo coraggio di aver paura, a me ha dato lo stimolo di iniziare un nuovo cammino nel segno di don Peppe Diana”.

Il vescovo di Aversa: conversione sempre possibile

Mons. Spinillo: anni tremendi, vittime anche di 15 anni

Erano anni tremendi, sottolinea il vescovo di Aversa, monsignor Angelo Spinillo, nell’omelia della Messa, quella mai celebrata da don Peppe alle 7.30 del giorno del suo onomastico, e "qui - prosegue il presule- si scontravano gruppi camorristici che non avevano nessun rispetto della vita, trucidando anche ragazzini di 15 anni". Eppure quel giovane prete aveva il coraggio, nelle sue omelie, ricorda ancora il procuratore antimafia, “di richiamare i camorristi al rispetto della persona e della vita”.

Don Luigi Ciotti e i ventimila della marcia

Oggi, 25 anni dopo, don Luigi Ciotti, fondatore di "Libera" e da sempre impegnato nella lotta a tutte le mafie, può dire, insieme ai ventimila che partecipano alla marcia: “Per amore non taceremo”, parole riprese dal forte documento di denuncia firmato nel Natale 1991 dai parroci di Casal di Principe e che è costato la vita al sacerdote, che “queste sono le terre di don Peppe Diana”. Da tre anni il “Comitato don Peppe Diana” ha la sua sede, la “Casa don Diana”, in quella che era una villa di un boss della camorra, oggi confiscata. Oggi si può fare memoria del sacrificio dell’unico sacerdote ucciso in Italia ai piedi dell’altare, ricorda il vescovo Spinillo, trasformandolo “in un annuncio di pace”, che accoglie e include le diversità. “Con lui sognamo – aggiunge – una Chiesa e una società umana ricche di voglia di bene e giustizia”.

Don Ciotti: invitava i camorristi a cambiare vita

Il vescovo Spinillo:  il male è sempre in agguato

Nella veglia del 18 marzo, sempre nella chiesa di san Nicola di Bari, il vescovo di Aversa Angelo Spinillo aveva sottolineato che la morte di don Peppe “ci tiene svegli, perché non ci appaga sapere che i colpevoli sono stati arrestati , ma ci fa essere in tensione verso la luce del bene, perché il male è sempre in agguato”. Il sacrificio di don Diana “ci chiama a non lasciarci prendere dalla stanchezza”. A Vatican News aveva aggiunto: “L’ esempio di don Peppe, come quello di tanti altri fratelli e sorelle che nella Chiesa hanno testimoniato una fedeltà totale alla verità e alla giustizia, ci incoraggia a vincere quel male che serpeggia nel nostro quotidiano, nelle piccole cose di tutti i giorni. Forse noi meridionali abbiamo una triste abitudine al fatalismo, e quindi siamo un po’ rassegnati anche al male, e riteniamo che chi con prepotenza domina sugli altri lo faccia in una forma che non può mai cambiare. Invece don Peppe, ma direi il Vangelo, ci invitano a credere nella possibilità di una conversione, perché non possiamo rassegnarci a queste forme quotidiane di indifferenza, di prevaricazione e quindi di sofferenza, ma siamo chiamati a risorgere”.

Il sindaco Natale: dove sono le altre istituzioni?

Venticinque anni fa Renato Natale, medico, era sindaco di Casal di Principe. Oggi lo è di nuovo e lamenta l’assenza delle istituzioni alle celebrazioni. Sperava nell’arrivo del presidente della Repubblica Mattarella, che ha mandato un forte messaggio, sottolineando che è “indispensabile rompere il silenzio e avere il coraggio di sfidare l’omertà”. Ma, grida forte il sindaco dal palco allestito sul piazzale del cimitero dove è sepolto don Peppe al termine della marcia per le strade di Casal di Principe dopo l' “inchino” davanti alla casa della famiglia del sacerdote e il saluto a mamma Jolanda sul balcone, “questo popolo che ha visto centinaia di morti ammazzati su queste strade- spiega Natale - avrebbe avuto bisogno di una pacca di solidarietà sulla spalla”.

Mattarella, il Papa e i fiori sulla tomba

La attediamo, dice il sindaco Natale al presidente Mattarella, “magari insieme al Papa”, per incontrare “chi sta soffrendo da anni, ma ha manifestato grande capacità di accoglienza e resistenza nel nome di don Peppe Diana, per portare i fiori sulla sua tomba”. Un gesto che fanno il vescovo, il sindaco, il testimone di giustizia, don Ciotti e due bambini, dopo che a fine della mattinata i ragazzi di tutte le scuole della zona hanno lanciato in cielo centinaia di palloncini colorati. “Dal seme che muore fiorisce una messe nuova di giustizia e di pace”, è inciso sulla tomba del giovane parroco. E qui, nelle terre di don Peppe Diana, in questi 25 anni è fiorita davvero la primavera.

Il procuratore De Raho: don Peppe ha scosso le coscienze

A Federico Cafiero De Raho, oggi procuratore nazionale antimafia, chiediamo se con l'omicidio di don Peppe Diana la camorra ha cominciato a perdere.

Ascolta l'intervista al procuratore Cafiero De Raho

R.- Sì, c’è stata una presa di coscienza innanzitutto dei casalesi, e poi c’è stata una sorta di riscossa da parte della gente. Le indagini sul clan dei Casalesi erano iniziate già da oltre un anno. Ma il suo omicidio ha dato un’ulteriore spinta perché fossero sviluppate nella giusta direzione. Don Peppe è la figura che ha fatto risorgere questa cittadina, perché è stato in grado di scuotere le coscienze di tutti.

Oggi queste sono solo le terre di don Peppe o ancora un po’ anche le terre della camorra?

R.- Sono ancora un po’ anche le terre della camorra. Il clan dei Casalesi, che era strutturato con una forza notevole dal punto di vista economico e imprenditoriale, non è ancora stato distrutto. Manca ancora molto del suo “tesoro”, della sua ricchezza, del frutto degli investimenti di denaro e attività. Basta pensare che tutte le grandi arterie stradali intorno a Napoli sono state costruite dalle imprese del clan dei Casalesi. Basta pensare ai consorzi che erano stati creati sul calcestruzzo, sulle cave, sugli inerti. Basta ricordare le migliaia di imprese che ruotavano nel circuito del clan dei Casalesi. Alcuni titolari di queste imprese sono stati arrestati, ma non tutti, e quindi c’è ancora un circuito del clan ancora attivo. Finché quel circuito non verrà annientato totalmente, c’è sempre la possibilità, attraverso la loro ricchezza, di ricostituirlo. La struttura militare si ricompone, si rinnova, bastano pochi soldi, soprattutto in un momento di disoccupazione come questo.

Lei come magistrato ha sentito che l’appoggio della gente è aumentato, dopo quel 19 marzo?

R.- Certamente. Basta dire che allora, si aveva paura di pronunciare anche la parola “clan dei Casalesi" poi le cose sono via via cambiate. Oggi tutti parlano liberamente del clan dei Casalesi. Già questo soltanto è la dimostrazione del totale cambiamento che c’è stato nel tempo.

Il Comitato "Don Diana": incarnò la speranza di cambiamento

Nel giorno delle celebrazioni, Vatican News ha raccolto anche la testimonianza di Valerio Taglione, coordinatore del Comitato “Don Peppe Diana”, che è stato un esploratore scout quando il giovane Giuseppe era un capo reparto dell’Agesci e poi, dopo l’ordinazione sacerdotale, assistente ecclesiastico degli scout di Aversa. “Don Peppe Diana dava fastidio – racconta - e il suo atteggiamento disincantato lo portava ad essere sfrontato e ‘diretto’ nelle cose. Voleva costruire nella sua parrocchia, della quale era parroco da pochi anni, un cambiamento”. Erano gli anni di Capaci, di via D’Amelio, degli attentati allo Stato, gli anni tra il ’92 e il ’94 nel quali, ricorda Taglione, “si percepiva una grande speranza di rinnovamento. E don Diana la incarnò: noi vedevamo attraverso le sue azioni, il suo impegno, che era possibile fare qualcosa di diverso”.
“Il suo sacrificio è stato per noi un insegnamento – prosegue il coordinatore del Comitato “Don Peppe Diana” - bisognava raccogliere quel testimone insanguinato e fare in modo che quella morte non fosse inutile, ma che producesse un cambiamento. Noi oggi diciamo che quell’atto terribile, il 19 marzo, è stato la fine della camorra e l’inizio di un percorso di riscatto e di rinnovamento. Certo oggi queste terre sono ancora terre di camorra, ma ad oggi possiamo dire con orgoglio che ci sono anche le terre di don Peppe Diana”.

Comitato "Don Diana": dalla sua morte, il cambiamento

Taglione: le calunnie su di lui hanno fatto male alla Chiesa

“Soprattutto nei primi anni – è il rammarico di Taglione - la Chiesa è stata troppo prudente, perché non aveva colto appieno, ieri lo diceva anche il cardinale Crescenzio Sepe (nell’incontro del 18 marzo nel carcere di Secondigliano, n.d.r.), la gravità di quell’atto, e il suo valore simbolico: uccidere un sacerdote in Chiesa, il giorno del suo onomastico. Forse fu condizionata dalle calunnie che accompagnarono la sua uccisione: don Diana era un camorrista, le donne, le armi. Insomma la Chiesa fu un po’ tiepida, rispetto ad organizzazioni come l’Agesci, che fin dal primo giorno credette che don Diana era stato ucciso dalla Camorra. L’Agesci si è costituita parte civile al processo e ha partecipato con un proprio avvocato che in udienza ha detto: don Diana è uno di noi. Infatti la Corte di Cassazione ha riconosciuto l’Agesci come parte lesa, perché aveva perso un suo formatore”.

La speranza che parta la causa di beatificazione

Negli ultimi anni, chiarisce Valerio Taglione, le cose sono cambiate: “Monsignor Spinillo, come primo atto, prima di prendere possesso della diocesi, si è recato sulla tomba di don Diana, per far capire che si ripartiva da questa esperienza forte di cambiamento. C’è ancora molto da fare, come la questione della beatificazione, che rispetto ad altri, come don Pino Puglisi e Rosario Livatino, è ancora ferma. Ci auguriamo che prima o poi si avvii questo percorso, come abbiamo chiesto dal 2015, non tanto per la santità, perché per noi don Diana è già santo, ma quanto per il valore simbolico di un riconoscimento del genere”. A Vatican News, il vescovo di Aversa spiega che “non è mai iniziato un processo informativo diocesano per una causa di beatificazione di don Diana. Abbiamo avviato una forma di ricerca storica, ma il resto poi si vedrà”.

Storie di rinascita nel nome di don Diana

Nel nome di don Diana, conclude Taglione, “oggi stiamo costruendo percorsi, luoghi, occasioni, incontri e soprattutto stiamo provando a far conoscere le tante persone oneste che vivono in queste terre. Alla nostra che è un’associazione di promozione sociale sono associate più di 50 cooperative, associazioni e la maggior parte di esse hanno in gestione beni confiscati, e quindi luoghi di morte che sono diventati luoghi di vita, di economia, in cui i giovani lavorano, hanno un presente, costruiscono un futuro di dignità. E oggi a ricordarlo, al di là di noi vecchietti, ci sono tanti giovani, che non hanno conosciuto don Peppe, ma che sono i migliori narratori delle storie e delle terre di don Diana”.

Don Aversano: quegli anni in parrocchia con Peppino

Accanto alla chiesa del Santissimo Salvatore di Casal di Principe incontriamo il parroco Don Carlo Aversano, che era vicerettore del seminario di Aversa quando il giovane Peppino era seminarista e ha avuto don Peppe come viceparroco. “Con lui siamo stati tra i primi, in diocesi, a creare una piccola comunità sacerdotale in parrocchia. Nonostante entrambi fossimo di Casal di Principe, mi propose di vivere insieme qui in parrocchia per condividere la vita, gioie, dolori, fatiche e speranze”. “Un giorno – racconta con dolore - giocavamo qui in cortile con i giovani, passa un camorrista e col dito indica ai ragazzi di venire da lui. Loro ci lasciano e vanno con loro. Era una lacerazione interiore, non potevamo non reagire, per aiutare i ragazzi a rischio che venivano trasportati in questa vita malavitosa”.

"Ci ha dato il coraggio di chiamare la camorra per nome"

“Con la sua morte – prosegue don Carlo - abbiamo trovato il coraggio di chiamare le cose con il proprio nome. Abbiamo affisso manifesti dal titolo ‘Combattiamo la camorra’. Oggi si può dire, 25 anni fa non era possibile. Quando vivevamo qui insieme hanno sparato contro la canonica. Nel vetro c’è ancora il buco che hanno fatto i proiettili, e don Peppino disse ‘Mi stavano uccidendo’. Abbiamo vissuto momenti tragici, un funerale di quattro persone uccise insieme, non so come si potesse vivere così”.

L' amico Nello: fu maestro di coraggio e di servizio

L' amico Nello: mi ha insegnato il discernimento

Infine, nella sacrestia dove è morto don Peppe, parliamo con Nello Mangiameli, foulard bianco con don Peppe e suo figlio spirituale. “Era il mio padre spirituale e io ero la sua spalla nei campi scuola, nelle animazioni – racconta - Tutti i mesi di agosto veniva in vacanza da me e celebrava la messa dell’Assunta, con tutti gli amici. Quando saliva sulla collina dove c’era una ruota di macina in pietra, che faceva da altare, attirava tutti gli sguardi. Io gli facevo da chierichetto. Era un momento di spiritualità e di catechesi vero e proprio. Oggi Papa Francesco parla spesso di discernimento. Don Peppe il discernimento me l’ha insegnato 30 anni fa, quando ero ancora un capo catechista giovane e inesperto, e mi ha insegnato a leggere la parola di Dio con il discernimento”.

"Ci ha dato il coraggio di essere noi stessi"

“Ci legava il servizio a Lourdes – prosegue Mangiameli - perché eravamo foulard bianchi, ma ci univa tanto la spiritualità, perché era “il sacerdote” per eccellenza. Manca la sua capacità di coraggio: lui il coraggio l’aveva nelle parole ma anche quando giocava, quando cantava la “tamurriata”, quando si scherzava: era il coraggio di essere veramente se stessi. Feci un’esperienza politica, grazie a lui, perché mi diceva: “tu parli di politica, ma ti sei mai veramente impegnato?” e così feci prima l’ assessore, e poi il sindaco. Il suo ‘eccomi sono qua’ quella famosa mattina, pesa nel cuore, perché è difficile avere questo grande coraggio. Dire: ‘sono qua, non mi nascondo, sono pronto’”.

Giovani che sappiano andare controcorrente

“E’ stata una persona vera, non conosceva l’ipocrisia – conclude Nello Mangiameli - Ti aiutava a far uscir fuori il meglio di te. I giovani devono avere un appoggio, trovare un padre spirituale, come l’ho trovato in lui io. Che li possa aiutare ad essere sé stessi, a non nascondersi, ad andare controcorrente. Lui ci ha educati ad andare controcorrente, e se è necessario dire no, io sono diverso, sono un ‘disabile’, un diversamente abile, e Lourdes ci ha educati insieme a questo”.

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Le manifestazioni a Casal di Principe
19 marzo 2019, 16:28