Vescovi in Terra Santa, Cetoloni: servono speranza e sincerità
Fabio Colagrande - Vatican News
Alla vigilia dell’annuale pellegrinaggio dei vescovi del “Coordinamento della Terra Santa” (Holy Land Coordination) che si svolgerà dall’11 al 16 gennaio tra Gaza, Ramallah e Gerusalemme Est, monsignor Rodolfo Cetoloni, delegato italiano e vescovo di Grosseto, rilegge il recente discorso di Papa Francesco al Corpo Diplomatico. L’invito al realismo, alla sincerità ma anche al coraggio e alla speranza, contenuto nel testo, traccia anche il percorso dell’impegno dei cristiani in Terra Santa, assieme alla riaffermazione della peculiare vocazione di Gerusalemme come “Città della Pace”. Il “Coordinamento della Terra Santa” raduna presuli delle Conferenze episcopali di Stati Uniti, Canada, Sudafrica, Inghilterra, Scozia, Irlanda e di altri Paesi dell'UE, insieme a rappresentanti del CCEE e della COMECE. La testimonianza di mons. Cetoloni, ai microfoni di Radio Vaticana Italia, arriva da Gerusalemme a poche ore dall’inizio del pellegrinaggio.
R. - Nel discorso del Papa al Corpo Diplomatico di quest’anno c'è questo sguardo davvero realista sulle situazioni attuali. Francesco ha chiamato per nome tutte le situazioni geopolitiche ma su queste ha cercato di inserire una parola che mi pare importante: la speranza, legata al realismo e legata anche al coraggio. Un'altra cosa che mi ha colpito in questo messaggio è il riferimento alla responsabilità verso il mondo dei giovani quasi che un mondo stanco abbia però la necessità e il dovere di comunicare ai giovani i valori della solidarietà a cui si richiama il Papa, anche parlando dell'Europa. Io ora sono a Gerusalemme e il Papa, citando l'incontro avuto in Marocco con il Re Maometto VI si è rifatto alla missione di questa città e alla sua vocazione all'incontro e al rispetto reciproco ma anche di costruzione, in una prospettiva di speranza, soprattutto in questi momenti in cui si inaspriscono le tensioni e le violenze. Inoltre il Papa ha insistito molto, e questo mi pare si colleghi molto all'impegno della “Holy Land Coordination”, sul tema dell'educazione e della formazione dei giovani. Noi avremo, per esempio, un incontro a Gaza in una scuola frequentata per la maggior parte da giovani musulmani, non cristiani, ma molto stimata e molto amata. Poi ci incontreremo anche con le suore di Betania, che stanno vivendo la realtà della separazione, creata dal muro voluto da Israele, tra la scuola e i ragazzi. Mi pare che il nostro servizio qui, da secoli ormai ma in questi ultimi tempi in modo ancora più urgente, sia quello di essere una presenza che educa, che attraverso la scuola e i programmi scolastici inserisce in queste terre questo stile di condivisione, di conoscenza, avendo il coraggio di proporre ai giovani qualcosa di nuovo, in questo mondo che in questi ultimi tempi si sta invece confrontando solo con chi fa la voce grossa.
Il pellegrinaggio di quest'anno della “Holy Land Coordination” ha come tema la promozione del dialogo e della pace in Terrasanta. Eppure “dialogo” sembra a molti una parola quasi logorata, abusata. Come mai?
R. - Il Papa ai diplomatici ha parlato giustamente di realismo. Ciò vuol dire che anche alla parola dialogo bisogna dargli un valore vero: di incontro, di ascolto, di umiltà nel dire le cose. Non bisogna perdere mai la speranza che il bene sia più forte del male e questo richiede però tanta fatica. Il timore è quello di esserci un po' stancati di dire queste parole perché non gli abbiamo saputo dare i contenuti giusti. È inutile parlare di pace se poi non c'è l'impegno, non ci sono i frutti, attraverso la giustizia, l'incontro, l'accoglienza. Allora si capisce che le parole possano cominciare a suonare vuote, ma ugualmente non bisogna smettere di dirle. Dobbiamo solo abituarci a dargli dei contenuti, semplici, umili, ma concreti. Consapevoli che sono parole che richiedono un lungo lavoro di costruzione e che come cristiani, anche se a volte siamo incoerenti e fragili, non dobbiamo mai stancarci di usarle.
Come vescovi del Coordinamento Terra Santa sarete anche a Gaza, una regione che resta il simbolo delle difficoltà del processo di pace israelo-palestinese…
R. - Sì, è vero. Francesco ha parlato di realismo e con lo stesso realismo, senza farci illusioni, dobbiamo guardare alla gravità di una situazione di conflitto come questa. Ma anche se visiteremo queste zone periferiche non dobbiamo scordare le parole del Papa su Gerusalemme e sulla sua peculiare vocazione all’incontro e alla pace, è lì che troviamo il messaggio per tutta la Terra Santa. Francesco ci sprona al coraggio ma anche alla sincerità: quella di chiamare le situazioni con il loro vero nome. Serve rispetto, serve comprendere le situazioni, ma è inammissibile la coltre di silenzio di cui il Papa ha parlato, per esempio, a proposito della Siria. Anche il silenzio sulle situazioni di tensione che si vivono qui in Terra Santa finisce per mettere sempre più a rischio la pace, perché si coprono i problemi ma alla fine le situazioni vengono fuori. Ci sono infatti delle persone, delle famiglie, dei bambini. Direi che il Papa ha tracciato la rotta di noi cristiani parlando di coraggio, sincerità ma anche di vocazione peculiare al dialogo. Noi cristiani non dobbiamo arrenderci, come non si arrendono qui le minoranze, la piccola comunità di Gaza e quelle in tutta la Palestina. Dobbiamo sostenerle anche per il messaggio di speranza e dialogo che portano a tutta la Chiesa. Anche di riconciliazione, di solidarietà e di perdono, perché se non si seminano questi valori nella società ci saranno sempre le vittime dell’arroganza e l’impegno per la giustizia basato solo sulla forza non costruirà la pace, la pace di quel Principe della pace di cui abbiamo appena celebrato la nascita.
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