Coronavirus, e l'Italia riscopre il suono delle campane
Alessandro De Carolis – Città del Vaticano
Don Martino Gajda ha il nome che sembra fatto apposta. È parroco di una chiesa deserta, svuotata come tutte da un microrganismo che ha fatto tabula rasa in un amen, è il caso di dire, dei riti di una nazione intera. Don Martino tutte le sere, alle 21, fa suonare il campanone della chiesa di San Silvestro a L’Aquila, gioiello del 1300 crollato e rimesso in piedi con cocciutaggine abruzzese dopo ogni terremoto fino all’ultimo del 2009. A luglio dell’anno scorso, dopo 10 anni di restauro, la chiesa ha riabbracciato i suoi fedeli che adesso il Coronavirus le ha di nuovo strappato via. Per don Martino non è un problema. Anche dopo il terremoto, dice, “la chiesa non si è mai fermata” e ora che una nuova emergenza sbarra la strada, don Martino sfrutta l’aria con il suono della sua campana. “Sia la voce di Dio che entra nelle nostre case” è l’augurio che fa ai suoi parrocchiani.
La rete sonora
Da quando il Covid-19 ha chiuso gli italiani a casa, la decisione di don Martino si è replicata per molte delle migliaia di campanili che punteggiano l’Italia, che siano monumenti storici o grigi pinnacoli di cemento. Tanti parroci da nord a sud della Penisola fanno suonare a orario – alle 12, alle 19, alle 21 – le campane delle loro chiese, chiamando alla preghiera da fermi, riunendo senza muovere nessuno, celebrando nello spirito il Sacramento che è stato sottratto al corpo, solo rispondendo a un segnale antico che la modernità ha derubricato a inevitabile “fastidio” domenicale. Così il campanile, da simbolo proverbiale dell’attaccamento miope e un po’ gretto alle cose del proprio territorio, sta riscoprendo una nuova dimensione. Non più ciascuno singolarmente bandiera “privata” di un villaggio isolato dagli altri, ma tutti i campanili insieme collegati come altrettante torrette di avvistamento, una rete ideale di rintocchi che ricordano alla gente della metropoli e dei paesini che in questa epoca di clausura domestica c’è un suono del cuore oltre a quello della tv.
Da Nord a Sud
La Chiesa di Milano annovera il suono delle campane al tempo del contagio nella pagina delle “buone prassi liturgiche” e dà conto sul suo sito degli orari in cui saranno azionate nelle parrocchie dell’arcidiocesi. A Roma l’eco delle campane di Santa Maria in Trastevere, informano dalla Comunità di Sant’Egidio, durerà per dieci minuti ogni sera dalle 20. A Bologna l’onda sonora, prodotta da un batacchio azionato da mani e piedi, partirà dalla cattedrale di San Pietro alle 19. Mentre nella sua Rieti monsignor Domenico Pompili ricorda che “la campana è tradizionalmente segno di comunità e pericolo”, cioè di un gruppo di persone pronto a raccogliersi a difesa di una stessa identità e appartenenza, che oggi in un’Italia tante volte spezzettata da egoismi e partigianerie, si ritrova – è l’impressione di tanti – più unita come a memoria non si ricordava.
Rintocchi e resilienza
Insomma il suono delle campane si sta riscoprendo uno degli agenti di unificazione nazionale, dopo l’ammirazione collettiva per il magnifico spirito di servizio di chi lavora negli ospedali. E ogni giorno in più di isolamento la geografia del tocco si estende. Non importa se generato da una campana “fissa” o a “slancio” o dalle loro emule virtuali e prosaiche. Ogni loro riverbero in fondo produce un contagio ben più potente del Coronavirus, perché arriva a bersaglio, stimola la resilienza, e magari commuove, anche stando a chilometri di distanza. Pier Capponi avrebbe avuto ragione anche oggi a ribattere alla minaccia dei piccoli nemici tondi dai ciuffi rossi: voi agitate pure i vostri pennacchi, "noi soneremo le nostre campane".
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