Coronavirus a Viboldone: potatura pasquale che rigenera
Fabio Colagrande – Città del Vaticano
“Il virus è entrato pesantemente nella nostra casa, ma, grazie a Dio e ai suoi santi che ci assistono non gli è stato permesso di fare danni gravi e irreparabili”. Nei giorni di Pasqua il racconto drammatico che si trasforma in testimonianza di fede arriva dalle ventidue religiose benedettine dell’abbazia medievale di Viboldone, alle porte di Milano. Tutto inizia quando a fine febbraio una delle monache si reca con un permesso speciale in un ospedale del milanese in visita alla sorella che ha subito una delicata operazione. Dopo il decesso di quest’ultima, al suo rientro, la religiosa comincia ad accusare i sintomi del Covid-19 e si mette in auto quarantena. Ma dopo di lei altre monache iniziano a stare male: febbre alta, tosse e difficoltà di respirazione. A prendersi cura di loro è una consorella medico, mentre le prime mascherine le religiose le cuciono con le loro mani nella sartoria dell’abbazia. Grazie all’intervento dell’Agenzia della tutela della salute di Milano gli esami sierologici e i tamponi confermano la presenza effettiva del coronavirus nell’abbazia e per le suore contemplative il verdetto medico all’inizio della Settimana Santa diventa prova ma anche pungolo per meditazione e preghiera. “San Benedetto dice che la vera quaresima è quella benedetta dall’obbedienza e la grazia si manifesta più potentemente nella debolezza”, racconta a Vaticannews, parlando a nome di tutta la comunità, madre Maria Ignazia Angelini, da 56 anni residente a Viboldone, dove è stata Badessa per oltre due decenni. “Tra mascherine, guanti, odore acre di disinfettanti, abbiamo sentito il profumo della fraternità gratuita”.
Come avete vissuto l'ingresso del virus nella vostra abbazia?
R.- Inizialmente con smarrimento e dolore, perché ostacolava tutto l’itinerario quaresimale previsto per noi e il programma di catechesi per i nostri ospiti, le iniziative di preghiera: tutto azzerato. Dolore perché anche le nostre famiglie ne erano pesantemente colpite. Tra noi alcune si sono ammalate con sintomi più accentuati, e sono state curate in isolamento, ma tutte temevamo di essere contagiate e contagiose, riconoscendo in noi alcuni dei sintomi. Inizialmente, non trovavamo il materiale sanitario per proteggerci. Ma questo inconveniente si è subito risolto per l’attenzione premurosa di molti, anche delle autorità civili, sanitarie, e della comunità ecclesiale. Poi, da quando attraverso l’intervento dell’autorità sanitaria abbiamo avuto conferma del contagio, e non è più venuto il sacerdote a celebrare l’Eucaristia: siamo rimaste come interdette.
Come avete accolto il contagio come credenti?
R. - Abbiamo capito che c’era una Parola forte da comprendere: i propositi quaresimali erano nostri, ma san Benedetto dice che la vera quaresima è quella benedetta dall’obbedienza. La volontà di preparazione di un itinerario era nostra: ma la grazia si manifesta più potentemente nella debolezza. Abbiamo colto che si trattava di fermarsi e mettersi in ascolto attento: la privazione da celebrazioni rituali amate, faceva brillare la bellezza di gesti fraterni, molto concreti, umilissimi. L’impossibilità di radunarsi, cantare, lavorare, applicarsi, apriva scenari inediti all’amore fraterno. In grande semplicità e povertà abbiamo riscoperto la grazia del battesimo. Tra mascherine, guanti, odore acre di disinfettanti, abbiamo sentito il profumo della fraternità gratuita, spoglia, tangibile al di là delle distanze imposte dal contagio. L’attesa della prima Eucaristia che potremo celebrare, è forte, umile, meno inconsapevole di sempre. Come c’è un Battesimo di desiderio, forse – ci siamo dette – c’è anche l’Eucaristia di desiderio, oltre la comunione spirituale.
La presenza della malattia come ha cambiato la vostra vita religiosa?
R.- L’ha capovolta nelle modalità abituali: ritmi, pratiche, modi comunicativi, pensieri, sentimenti dominanti, paure, l’ha rifondata nella sua sostanza. Credo che dovremo ricordare a lungo questi giorni, per coglierne tutta la grazia di conversione, di nuova nascita. Come l’organismo di ciascuna ha lottato e sviluppato anticorpi, così l’animo – passato al vaglio dell’aggressione del male che richiedeva di lottare insieme, e sole – è stato reso consapevole dei piccoli egoismi, dei protagonismi stolti, delle paure incredule, insensate pretese di autonomia. L’anima ha ricevuto una specie di potatura rigenerante. Ma i frutti, che chiediamo allo Spirito di far nascere da questa devastazione, si dovranno vedere anche, e più, dopo.
Com'è lo stato di salute delle sorelle malate e come vi prendete cura di loro?
R.- Siamo tutte molto incoraggiate a sperare, nel vedere che le situazioni di ciascuna non peggiorano, anzi sono in netto miglioramento. E poi abbiamo capito che il confine tra malate e sane non è così netto: tutte abbiamo sperimentato grande vulnerabilità e la maggior parte di noi ha di fatto subito il contagio, sviluppando anticorpi. È stata una cura reciproca. La cura diretta delle malate è affidata soprattutto alla sorella che tra noi è medico; alla cura premurosa della Madre nel visitare e portare cibi e medicine, e parole di conforto, da fuori della porta delle celle. Ma importante è stata la parte di coloro che nelle retrovie provvedono a tutte le necessità e gli aspetti della vita quotidiana. Le stesse sorelle malate ci sostenevano coi loro messaggi, l’interessamento, la pazienza per le inevitabili lentezze, la preghiera.
Che segno è stato vivere la Quaresima e poi la Settimana Santa in questa situazione di paura e fragilità?
R.- Un segno forte che richiede molto silenzio per essere decifrato e non sopporta facili retoriche. Un segno che ci rimanda alla comune appartenenza all’umano, alla precarietà come luogo del nascere e rinascere di legami saldi e generativi. Un segno come quello di Giona, per la conversione. Soprattutto all’umiltà della nostra condizione di donne fragili. Di una storia comunitaria appesa unicamente alla fedeltà di Dio che tra deserti e dirupi, in una “landa di ululati solitari” (Dt 32) conduce il suo minimo gregge in libertà. Chissà dove ci condurrà il Signore attraverso la presente crisi? Questo è quello che ci domandiamo. Paradossi apparentemente incompatibili tra loro che da sempre segnano la vita di comunità, sono venuti in piena luce, sovvertono i linguaggi consueti, ma per rigenerarli in radice: solitudine, eppure “insieme”; il corpo geme per l’assenza della mano di Dio, eppure percepisce la sua Presenza tenerissima; minima, essenziale, ritualità: percezione di tutta la verità del sacrificio spirituale del corpo; silenzio di parole, alta risuona la Parola. Terrosità umiliante, apertura al Soffio.
In questi giorni difficili avete avuto manifestazioni di solidarietà che vi hanno illuminato?
R.- Dopo un’iniziale fatica, siamo state sostenute da un cerchio di premure e di solidarietà di ogni provenienza che ci ha sorpreso e ci ha dato tanto coraggio di resistere nella lotta paziente contro il male. Una provvidenza immeritata. Ci ha fatto sentire privilegiate. Anche con non poca confusione, pensando alle fiumane di gente che manca di mezzi per affrontare l’emergenza.
È possibile leggere questa vostra esperienza in chiave pasquale?
R.- Sicuramente sì: non doveva essere meno arrischiata la tenuta della fede in quella prima Pasqua: sia quella raccontata in Esodo sia quella narrata dai Vangeli. Non è senza significato che la salmodia, corale e personale in cella, in questa Quaresima ha assunto una forza e una vitalità tale da diventare quasi l’unico linguaggio per dirci quello che vivevamo, giorno dopo giorno. I Salmi hanno fatto corpo con le nostre fatiche, le notti, le speranze, le angosce, si sono riempiti della nostra voce afona: non è qualcosa di attinente al compimento delle Scritture che è uno delle fondamentali esperienze pasquali? Forse per noi si protrarrà il deserto. In ogni caso, la fede pasquale anche al mattino di Pasqua viveva paura e smarrimento, esitazione a mettere a fuoco l’accaduto. Le donne che pure hanno intuito, non hanno capito e, incredule loro pure, non subito sembra abbiano esorcizzato la paura. Per ora gustiamo la grazia di essere insieme, di poter pregare umilmente, nella nudità dell’assenza del canto, nel silenzio dalle festosissime celebrazioni pasquali degli altri anni. La grazia di intercedere senz’altra forza che la fedeltà di Colui che ci ha amato e ha dato se stesso per uno, come per tutti.
Quale sfida spirituale presenta questa pandemia globale, secondo voi?
R.- Immagino che la sfida riguardi scenari mondiali, e scenari del più intimo del cuore. Comunque quell’infinitesimale mostriciattolo di virus fa traballare le fondamenta del mondo civile, politico, economico-finanziario, culturale. Ma anche chiama a conversione l’istituzione ecclesiale. E chiama ciascuno ad aprirsi al dono di un cuore nuovo e di uno spirito nuovo. Come quello che Ezechiele, nella Veglia pasquale, vede generato dalla grande crisi dell’esilio e della deportazione. La sfida è a convertirsi da logiche di presunzione, di autosufficienza. Per schiudersi con stupore come bambini appena nati a gustare, riflessa su ogni sguardo – anche se il viso è ancora coperto da mascherina – che buono è il Signore: Colui che fa scendere agli Inferi e risalire, Colui che per noi si è fatto “maledizione”, come un malfattore e un appestato, mentre portava i nostri mali, guariva le nostre malattie. Come dice il profeta, e don Primo Mazzolari ha inciso con memoria indelebile nel nostro cuore: “Et ego non sum turbatus, te Pastorem sequens” (Ger 17,16).
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