Nella fede di oggi, il frutto del martirio dei preti polacchi nella II Guerra Mondiale
Giada Aquilino - Città del Vaticano
Una testimonianza di fede vissuta “fino alla morte”, ma anche una prova della “voglia” di vivere l’Eucaristia e i Sacramenti nonostante l’impossibilità di farlo. Nella “Giornata del martirio del clero polacco durante la Seconda Guerra Mondiale”, celebrata oggi dalla Chiesa della Polonia, questo è l’esempio degli 861 sacerdoti figli di quella nazione uccisi dal regime nazista nel campo di concentramento tedesco di Dachau. A parlarne con Vatican News è don Paweł Rytel-Andrianik, portavoce della Conferenza episcopale polacca. È proprio il “sangue” di quei martiri, come monsignor Michal Kozal, vescovo ausiliare di Wroclaw, o monsignor Wladyslaw Goral, vescovo di Lublino, solo per citarne alcuni, a portare - dice il portavoce dei vescovi polacchi - “frutto nella fede” anche oggi, quando nel pieno dell’emergenza da Covid-19, che in Polonia fa registrare circa 12 mila casi e più di 500 decessi, siamo impossibilitati a partecipare fisicamente alle celebrazioni.
R. - Ricordiamo oggi il martirio, cioè la testimonianza della fede fino alla morte e allo stesso tempo tutti i martiri, sia di Dachau sia di altri luoghi, quindi le vittime dei totalitarismi, del nazismo e del comunismo. Questo è il giorno della memoria e insieme della testimonianza e della provvidenza, perché quei sacerdoti prigionieri a Dachau fecero un voto: se fossero sopravvissuti sarebbero andati in pellegrinaggio al santuario di San Giuseppe a Kalisz.
Due ore prima della distruzione del campo di concentramento, che era stata programmata, il 29 aprile 1945 furono liberati dagli americani. I sacerdoti lo interpretarono come un segno della provvidenza di Dio.
Furono più di 1.700 i sacerdoti polacchi deportati nel campo di concentramento tedesco. Chi erano e perché oltre 800 furono uccisi?
R. - I nazisti misero in prigione i sacerdoti nel campo tedesco di Dachau, come in altri campi di concentramento tedeschi, semplicemente perché erano sacerdoti e perché erano punto di riferimento per le comunità parrocchiali. Per distruggere la nazione cominciarono proprio dai sacerdoti e dall’intellighenzia del Paese. Questi oltre 1.700 sacerdoti polacchi fanno parte dei quasi 3.000 tra sacerdoti, vescovi e suore che erano presenti nel campo di Dachau. E nei campi di concentramento in Polonia poi c’erano ancora altri sacerdoti. Le statistiche sono queste: in Polonia, su circa 10.000 sacerdoti diocesani prima della Seconda Guerra Mondiale, i nazisti ne uccisero circa 2.000; su 8.000 religiosi ne furono uccisi 370; su 17.000 suore ne furono uccise 280. Non possiamo inoltre dimenticare che allo stesso tempo 4.000 sacerdoti e religiosi e più di 1.100 suore erano prigionieri negli altri campi di concentramento. E comunque anche coloro che erano liberi hanno sofferto nelle loro case, sia sotto il regime nazista sia sotto quello comunista.
Che testimonianze rimangono dell’epoca, dopo che l’ultimo sopravvissuto è scomparso nel 2013?
R. - Testimonianze di fedeltà. San Giovanni Paolo II nel 1995, nel 50° anniversario della liberazione del campo di Auschwitz, disse come quei sacerdoti, vescovi e suore rimasero fedeli fino alla fine, dando testimonianza di carità e perdono.
Parlò inoltre di dignità della vita e giustizia: possiamo pensare a tal proposito ad un martire conosciuto in tutto il mondo, San Massimiliano Kolbe, che diede la propria vita per un padre di famiglia. Inoltre posso ricordare un esempio della mia diocesi di Drohiczyn, il sacerdote Antoni Beszta-Borowski. Gli amici gli dissero di scappare, perché i nazisti avevano preso i suoi documenti e presto lo avrebbero arrestato o ucciso. Ma lui disse che non poteva lasciare la sua gente e i suoi sacerdoti, perché se non avessero preso lui i nazisti avrebbero preso sicuramente loro. Quando venne catturato, dei bambini assistettero alla scena: un soldato tedesco entrò nella canonica e prese la sua stola. Si rivolse ai bambini dicendo loro che nessun sacerdote sarebbe rimasto in città, distruggendo poi la stola e lasciandola cadere in terra. Una donna la raccolse e la custodì. Anni dopo, uno di quei bambini, nipote di don Antoni, prese i voti da sacerdote e, durante la sua prima Messa, quella donna riconsegnò la stola. Da allora tante vocazioni sono nate in quel luogo. Penso sia un esempio che il sangue dei martiri porta frutto nella fede.
I racconti sono quindi di vessazioni, atrocità, criminali esperimenti e anche di oltraggio al Signore, alla Croce, al Rosario. Come i prigionieri scampati alla morte riuscirono a sopportare tanto?
R. - Sembra incredibile. A Dachau per esempio c’era una suora che, grazie all’aiuto di una persona che aveva un negozio nelle vicinanze, riusciva a consegnare i paramenti liturgici: lì alcuni hanno potuto, ovviamente di nascosto, celebrare Messa e ordinare sacerdoti. Ultimamente il rettore della missione cattolica polacca in Germania mi ha mandato una lettera dell’epoca: è di un prete che raccontava la voglia di celebrare Messa, anche se non poteva. È un po’ quello che adesso anche noi viviamo col coronavirus: vediamo che ci sono tante persone che non possono andare a Messa. Nel momento della pandemia che viviamo dobbiamo allora trarre esempio da quella fede che diede la forza di sopravvivere a quel sacerdote. Anche per questo celebriamo la Giornata del martirio del clero polacco durante la Seconda Guerra Mondiale e ringraziamo il Signore per la loro testimonianza.
Raccogliendo testimonianze in questo momento di pandemia, ci è stato detto per esempio dalla Russia come – con le dovute differenze e il rispetto per le vittime – questo tempo in cui si è costretti a stare a casa, pregando in famiglia, ricordi appunto quella mancanza dell’eucaristia, quella preghiera di nascosto dei tempi delle persecuzioni sovietiche. Alla Polonia che dono viene dall’esempio dei martiri della Seconda Guerra Mondiale?
R. - È proprio l’esempio della fede. Una fede che ha aiutato non solo i sacerdoti, ma tutte le persone, che fossero cattolici, protestanti, ortodossi, ebrei. Perciò oggi, celebrando la Giornata dei martiri in un tempo di pandemia, pensiamo che noi abbiamo le trasmissioni, possiamo collegarci tramite la radio e la televisione con la Santa Messa e possiamo in qualche modo essere uniti con la Chiesa tramite i mezzi di comunicazione, ma allora non c’era questa possibilità. Ciò nonostante quelle persone sono sopravvissute attraverso la fede.
In questi giorni era in programma un pellegrinaggio a Dachau, rimandato proprio per il coronavirus. Quale speranze per il futuro?
R. - Il pellegrinaggio nazionale a Dachau è stato posticipato a quando sarà finita l’emergenza per il coronavirus. Organizzata in collaborazione con la Conferenza episcopale tedesca, alla commemorazione era prevista la partecipazione del presidente dei vescovi locali, del clero e dei fedeli, così come successo cinque anni fa quando si sono celebrati i 70 anni della liberazione del campo di concentramento di Dachau.
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