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Pasqua in Russia. Pezzi: capaci di vincere la paura con la fede

Intervista all’arcivescovo Paolo Pezzi della Madre di Dio a Mosca sulla Pasqua in Russia in questo momento di pandemia. In circostanze come quelle che viviamo, il presidente della Conferenza episcopale russa richiama alla mente le esperienze di fede al tempo delle persecuzioni sovietiche, quando piccole comunità e nuclei familiari si riunivano in clandestinità semplicemente per pregare. Oggi, dice, ci siano d’insegnamento

Giada Aquilino - Città del Vaticano

L’emergenza del Coronavirus “ci costringe a vivere questo momento culmine della nostra fede in modo speciale, lontano ma non separato” e “nell’unità di comunione con tutta la Chiesa”. Con queste parole il metropolita Paolo Pezzi dell’arcidiocesi della Madre di Dio a Mosca si è rivolto ai cattolici russi, in un messaggio per la Settimana Santa in corso e per la prossima Pasqua. In Russia i casi di contagio da Covid-19 sono saliti ad oltre 10 mila.

Per il bene di tutti

Il presidente della Conferenza episcopale russa, per rassicurare i fedeli della propria Chiesa - 100 mila praticanti, su un milione e mezzo di russi che si dichiarano cattolici - ha ricordato inoltre che le Messe non sono soppresse, proseguono in streaming, sui principali mezzi di comunicazione e via social, e che i sacerdoti celebrano in privato ma “per il bene di tutti”.

L’intervista

A Vatican News, l’arcivescovo Pezzi evidenzia come tante famiglie abbiano ora “cominciato a pregare in casa insieme”, con una esperienza di fede che dimostra “l'appartenenza all'unico corpo di Cristo”. Questo delicato momento di pandemia che costringe all’isolamento, sottolinea inoltre, richiama nei cuori e nelle menti gli anni del periodo sovietico, delle persecuzioni, quando piccole comunità e nuclei familiari “si erano trovati assieme in clandestinità o comunque la sera, chiudendo la porta di casa”, per pregare, senza il “conforto dei Sacramenti”: eppure, dice, “era una fede molto forte e molto vissuta” che oggi dev’essere di insegnamento.

L'intervista all'arcivescovo Pezzi

R. - Le celebrazioni avvengono in modo privato e sono trasmesse il più diffusamente possibile attraverso i mezzi di comunicazione, soprattutto canali YouTube e social network. Quello che ho notato è anzitutto una presa di coscienza molto seria e molto forte da parte dei fedeli, certamente un grande dolore per non poter partecipare all'Eucaristia, ai Sacramenti, ma anche un serio desiderio di prendere quest’occasione sul serio per una propria conversione, per una crescita della propria fede. Per esempio, mi arrivano testimonianze di famiglie che hanno ricominciato o cominciato a pregare in casa insieme: gente che dice che, pur nella difficoltà di dover rimanere anche in 4 persone in appartamenti a volte di 50-60 metri quadri, questo dà loro forza pure per un aiuto reciproco.

È il motivo per cui lei ha scritto che questa Pasqua è un momento che si vive lontani ma non separati?

R. - Sì, proprio per questo. Devo dire che è stata anche una mia personale scoperta, cioè l’aver riscoperto la comunione nel senso di communio, di ecclesia, come qualche cosa certamente di spirituale ma non per questo meno reale. Ciò non significa allora che dobbiamo augurarci che questa debba essere la condizione normale. Certo no! Però è vero che, pur essendo nella distanza, è importante riscoprire quello che dice San Paolo della comunione, cioè che noi realmente apparteniamo gli uni agli altri e l'appartenenza all'unico corpo di Cristo certamente si mostra molto forte nell'esperienza di fede che possiamo fare in questo tempo. Ricordo che nei primi anni ’90, quando fui mandato come missionario, sacerdote in Siberia, una delle cose che più mi colpì fu la scoperta di piccole comunità, nuclei familiari, che durante il periodo sovietico si erano trovati assieme in clandestinità o comunque la sera, chiudendo la porta di casa, e con la sola preghiera perché non potevano avere il conforto dei Sacramenti, l'Eucaristia, la Confessione, la Cresima, il matrimonio. Quello che mi colpì fu vedere che in queste persone non era diminuita la fede, anzi: era una fede molto forte e molto vissuta, certo con una grandissima nostalgia dei Sacramenti che a me portò fin quasi alle lacrime. Ma non vidi in loro una fede debole, affievolita. Al contrario. Ecco, penso che questa esperienza possa esserci di insegnamento oggi, quando le condizioni dell'isolamento sono date da altro, non dalle persecuzioni. Ma, nella sostanza, siamo chiamati a vivere questi rapporti di fede nella comunione, senza il conforto immediato dei Sacramenti o della vicinanza tangibile degli altri cristiani.

Ha potuto raccogliere i timori della gente in un momento così difficile, per il Coronavirus?

R. - Certamente ci sono molti timori, alcuni legati alla stessa pandemia, dovuti al fatto che non se ne conosce bene la natura, non se ne hanno gli antidoti, abbiamo notizie che ci dicono che sono gli anziani ad essere colpiti maggiormente ma d'altra parte sappiamo che non vengono risparmiate persone più giovani. È come se fosse un nemico invisibile. C’è pure un’altra paura che la pandemia ha messo a nudo: è quella che nasce dal fatto di riporre le proprie speranze in qualcosa che non è capace di darci speranza, di darci gusto, passione, senso per la vita. Ecco questo è il punto per cui io mi sono permesso di richiamare i nostri fedeli a un dover lottare. Forse anche noi per tanto tempo ci siamo un po’ adagiati a una certa vita “comoda”, non tanto per le condizioni perché molti nostri fedeli comunque vivono in condizioni non facili, quanto per il fatto che comunque ci si abitua un po’ al tran tran. In un certo senso questa è perciò un'opportunità per riscoprire che la fede, l’incontro con Cristo, la speranza sono realmente capaci di vincere la paura, di ridarci una fiducia e una passione per vivere.

Ci sono iniziative particolari, anche della Caritas, per i più vulnerabili e gli anziani?

R. - C’è il tentativo di continuare per quello che è possibile - e il più possibile - ciò che già si faceva nell’aiuto ai più vulnerabili. Ciò però non è così semplice da continuare nelle attuali condizioni. È ad esempio più difficile poter offrire un pasto caldo a chi non ha da mangiare, per cui cerchiamo di farlo ma osservando quelle norme di sicurezza che facciano sì che sia i volontari sia gli stessi assistiti non incorrano nel rischio di ammalarsi. Oppure cerchiamo di mantenere un posto di alloggio per le persone che non hanno fissa dimora, che non hanno casa, ma cercando di far sì che queste persone ora restino al chiuso. Per esempio abbiamo il caso di alcuni ospiti delle suore di Madre Teresa, che hanno potuto dopo diverso tempo trovare un lavoro: adesso per loro la situazione si fa un po' critica, perché da un lato sarebbe opportuno poter continuare ad andare a lavorare, dall'altro questo metterebbe loro, le suore e gli altri ospiti a rischio di infezione.

Ci sono contatti e forme di collaborazione con la Chiesa ortodossa in questa occasione?

R. - Sì. Personalmente sono rimasto molto colpito e anche sinceramente emozionato perché, in occasione della preghiera di Papa Francesco il 25 e il 27 marzo scorsi, mi ero rivolto agli ortodossi, ma anche ad altre denominazioni cristiane, armeni, luterani, comunità protestanti, vetero ortodossi, copti. E molti di loro, prima di tutti gli ortodossi, avevano messo già in atto un avviso tra i propri fedeli per pregare in contemporanea, così come aveva invitato il Papa. Qualcuno mi ha anche risposto ringraziandomi.

In questo Venerdì Santo come si prega allora per i “tribolati nel tempo di pandemia” e come si svolgono i riti?

R. - Ho chiesto che ogni sacerdote, possibilmente in una chiesa a porte chiuse o se non è possibile in una cappella privata o nell'abitazione, svolga due celebrazioni, quella della Via Crucis e la celebrazione della Passione. E di dare la possibilità ai fedeli di collegarsi, questo perché si mantenga anche un legame locale dei parrocchiani con la propria parrocchia. Poi io celebro la Via Crucis e la Passione e questi appuntamenti saranno messi in onda. L'altra cosa che ho chiesto è che nella liturgia venga inserita la preghiera particolare per coloro che soffrono per il virus, coloro che operano nel campo della salute e si prendono cura dei malati e anche per coloro che sono deceduti a causa di questa pandemia: si tratta di una preghiera all'interno della preghiera universale, nella celebrazione della Passione, così come ci è stata suggerita dalla Congregazione per il Culto Divino nei giorni scorsi.

Quale sarà la sua riflessione nel giorno di Pasqua in questo momento di emergenza da Coronavirus?

R. - Cercherò di concentrarmi su due punti. Il primo è che in circostanze come queste occorre non pensare a quando tutto finirà ma a cosa ci permette di essere uomini, cristiani, cosa perciò ci permette di essere generosi, di fare emergere i nostri migliori sentimenti. Questo è esattamente il significato del fatto che Cristo è risorto ed è presente. Il secondo aspetto è che purtroppo in queste circostanze emergono anche tanti aspetti di male. Non dobbiamo dimenticare che il demonio, Satana, ha tentato fortemente forse più di tutto Gesù proprio nel momento dell'agonia, nell'orto del Getsemani. E noi oggi non dobbiamo essere ingenui: se da un lato si vede un rinascere di bontà tra il popolo, tra i fedeli, però ci sono anche da constatare cattiveria, difficoltà e rabbia, soprattutto nei rapporti in casa di chi è costretto in spazi relativamente ridotti. Per questo è importante che il perdono, la riconciliazione siano posti in primo piano. Io per esempio ho chiesto che nel giorno di Pasqua i nostri fedeli si riuniscano attorno al tavolo, benedicano loro stessi e il cibo pasquale e vivano questa agape innanzi tutto come grazia del perdono e della riconciliazione.

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10 aprile 2020, 07:30