La commozione dei fedeli al Santo Sepolcro. Patton: in comunità ma con prudenza
Gabriella Ceraso - Città del Vaticano
Non ci sono pellegrini perchè la pandemia blocca le partenze dai Paesi più generosi come Stati Uniti, Spagna, Italia e Polonia, ma i fedeli locali ieri hanno potuto, nella solennità dell'Ascensione, tornare a varcare la soglia del Santo Sepolcro a Gerusalemme, chiuso da quasi due mesi come mai accaduto sin dal XIV secolo.
Il luogo della sepoltura di Gesù dopo la deposizione dalla Croce ha riaperto dunque, con ingressi ancora contingentati, con l'uso obbligatorio di mascherine, con continui controlli della distanza di sicurezza, tutte misure necessarie che però non hanno frenato l'emozione, anzi la commozione di tanti per essere finalmente tornati a unirsi in comunità e soprattutto per aver potuto ricevere nuovamente l'Eucarestia. Lo racconta ai nostri microfoni padre Francesco Patton, custode di Terra Santa: le liturgie all'interno della basilica, sebbene a porte chiuse, sono continuate regolarmente in ottemperanza ai divieti in vigore grazie ai monaci e ai frati che abitano il complesso da dentro, e anzi sono "continuate - tiene a rimarcare padre Patton - con un senso ecclesiale accresciuto".
R. - È una riapertura per un numero ancora limitato, fino a 50 persone, e deve esserci anche un controllo continuo con i responsabili delle varie comunità che verificano che chi entra abbia le mascherine e che rispetti le norme. Quindi è una riapertura "in progress" però è un passo molto importante. Adesso anche il Santo Sepolcro, dopo un lungo silenzio, entra in una fase di convalescenza, non ancora di piena guarigione.
Sappiamo che i pellegrini ancora non ci sono, lo conferma?
R. - Dovremmo aspettare la fine dell'estate per rivedere i pellegrini da alcuni Paesi e l'inizio del prossimo anno dai Paesi più importanti per numero di pellegrini, perché si tratta dei Paesi più colpiti dalla pandemia, in primo luogo gli Stati Uniti, poi l'Italia e al terzo posto Spagna e Polonia. Invece per i fedeli locali, oserei dire, che i nostri santuari sono rimasti aperti anche in questo periodo: il Getsemani non ha mai chiuso, Nazareth non ha mai chiuso, certo con tutte le precauzioni, ma abbiamo voluto dare il messaggio che la Chiesa - tra virgolette - non chiude i battenti, la Chiesa continua ad essere luogo di preghiera. Anche dentro lo stesso Santo Sepolcro, non dimentichiamolo, le tre comunità, greca, Latina, la nostra, e armena hanno continuato a pregare anche durante tutto il cosiddetto lockdown. La Liturgia all'interno del Santo Sepolcro è continuata e direi si è intensificata, purtroppo senza fedeli, ma con un senso ecclesiale ancora più forte, con un volto ecumenico, con una forma proprio universale di intercessione perché, rappresentando noi qui l'oriente e l'occidente, in qualche modo abbiamo dato voce all'umanità che fa salire l'invocazione per la cessazione della pandemia.
Che cosa secondo lei ha portato con sè questo periodo di chiusure? Non so se ha avuto modo di parlarne anche con i fedeli...
R. - Sì, ho avuto modo di parlare coi fedeli e soprattutto con i parroci. Nella nostra parrocchia di Sant'Antonio a Jaffa per esempio, che è una parrocchia tra l'altro multietnica, la domenica che abbiamo ripreso celebrare i fedeli piangevano perché potevano di nuovo celebrare insieme, perché potevano di nuovo insieme ricevere l'Eucarestia e ascoltare la Parola di Dio.
Il Papa ci ripete in questo periodo di ripresa di continuare a essere prudenti e di guardare al bene gli uni degli altri. Vi giunge questa sua parola e come pensate di anadare avanti , con nuove preoccupazioni o con una nuova consapevolezza che siamo tutti una sola famiglia...
R. - Non dovrebbe servire una pandemia per far crescere l'attenzione a chi è più vulnerabile. Da ora in poi quello che noi cerchiamo di fare è garantire misure prudenziali e necessarie. Ma poi, direi, che bisogna prospettarsi di tornare un giorno, alla normalità. La normalità certo ci sarà quando ci saranno delle terapie efficaci, ma non potremmo vivere, da qui in avanti, ossessionati dalla paura del contagio, perché questo vorrebbe dire non vivere più relazioni umane autentiche. Oserei dire che va ridimensionata la paura. Io sono totalmente a favore di misure prudenziali, finché non ci sono elementi sufficienti di sicurezza, però al tempo stesso dico anche che dobbiamo sconfiggere la paura, perché altrimenti avremmo delle persone che per paura non dormiranno la notte, per paura del contagio non daranno più la mano a nessuno, non daranno più un bacio neanche ai propri figli. E ciò vorrebbe dire entrare in una fase di "antropologia anestetica" e sarebbe un risultato terribile. Quindi prudenza sì, rispetto sì, eccessiva paura no, angoscia no, e nemmeno pensare che si debba continuare in questo modo per sempre.
Abbiamo dato voce in questi giorni anche alla preoccupazione del Patriarcato per la sorte delle scuole cattoliche, la condividete?
R. - Questa è un'altra questione ed è legata all'economia e certo è una preoccupazione condivisa. L'assenza di pellegrini da un lato e l'incertezza su come andrà la Colletta pro Terra Santa, che è stata posticipata al 13 settembre, sono un elemento di forte preoccupazione per tutti noi. Sentivo il vescovo degli anglicani: anche loro hanno molte scuole ed è chiaro la preoccupazione è di come pagare gli stipendi, perché in Israele c'è un welfare ma in Palestina di fatto non c'è la capacità finanziaria di una cosiddetta cassa integrazione. Al tempo stesso non dobbiamo però neanche dubitare della Divina Provvidenza: è riuscita a far scendere la manna dal cielo, quindi riuscirà anche ad aiutarci e ad aiutare un po' tutto l'impegno dei cristiani in Terra Santa anche in questa fase.
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