Serretti: colpiva come Papa Woityła seguisse Cristo
Massimiliano Menichetti
“Un incontro in cui è racchiuso tutto il mistero della paternità e della figliolanza”. Così don Massimo Serretti, ordinato sacerdote da Giovanni Paolo II, venticinque anni fa, ricorda il santo che tracciò vie da percorrere nella sua vita. Già docente di Teologia dogmatica nella Facoltà di Teologia della Pontificia Università Lateranense, insegna Teologia fondamentale all’Istituto Superiore di Scienze Religiose "Italo Mancini" di Urbino e Antropologia teologica presso l’Istituto Superiore di Scienze Religiose di Ancona. L’incontro con colui che sarebbe diventato il primo Papa polacco della storia avvenne nel 1976.
Cosa ha significato per lei conoscere Karol Woityła?
Non mi è possibile in nessun modo relegare nel passato l’incontro con Karol Woityła prima e con Giovanni Paolo II poi. Infatti l’incontro tra coloro che sono legati «in Cristo» è qualcosa che ha certamente un suo inizio storicamente e circostanzialmente determinato, ma affonda le sue radici in una dimensione che lo precede ed avvia una dinamica che la Chiesa chiama «comunione dei santi» e che non ha fine. Pertanto quel che in quell’incontro è accaduto è suscettibile di futuro e spinge prepotentemente da qui in avanti. Si capisce che quello a cui accenno è il mistero della paternità e della figliolanza. Il padre donando quel che è vitale apre a sua volta il figlio alla vita e in questa apertura, che ha un avvio e che non finisce mai, il figlio stesso è lanciato in un’avventura nuova, ferma restando l’appartenenza all’origine. È il contrario di quel che suppone la mentalità corrente: più si è ben agganciati all’origine e più si è lanciati in avanti.
Giovanni Paolo II iniziò il suo Pontificato con le parole: “Non abbiate paura! Aprite, anzi, spalancate le porte a Cristo!”. Lei ha definito San Giovanni Paolo II come: “L’uomo la cui ampiezza non si poteva abbracciare da nessun lato”. Cosa la colpiva?
Non mi colpiva nulla, ma mi affascinava tutto. È un indice di sicura verità il fatto che in tutta la storia della salvezza dei “grandi”, di Abramo, di Davide, di Mosé, degli Apostoli, si narrino non solo le mirabili gesta, ma anche le meschinerie, le debolezze. In questo modo la loro grandezza viene additata come qualcosa che li trascende. Essi sono portati oltre se stessi e, in tutto il loro essere ed esistere concreto, sono resi segno di Qualcuno che li definisce, che passa anche attraverso di loro, ma che non coincide con loro stessi.
Il Signore mette dentro il suo popolo questa grandezza perché la si segua. Di fronte a quell’uomo era chiaro che seguirlo significava seguire Cristo. Allora la risposta alla domanda iniziale si modifica ancora: quel che colpiva era come quell’uomo stava seguendo Cristo.
Anche dagli effetti della sequela si vede la differenza: quelli che seguono un capo diventano tutti uguali, quelli che seguono Cristo diventano tutti diversi.
Il suo pontificato è iniziato il 16 ottobre del 1978 ed è durato 26 anni, 5 mesi e 17 giorni. E’ stato definito il Papa dei giovani, della famiglia, ha abbattuto muri e steccati, promotore del dialogo tra le religioni e le culture. Su tutto l’uomo. Che significato aveva per lui questa parola?
Qui si tocca uno dei centri gravitazionali di tutto il pontificato, di tutto l’insegnamento, di tutta la persona di Giovanni Paolo II. Egli si distingue per come guarda, per come intende, per come dice ‘uomo’. In questo egli è un vero discepolo di Paolo VI che chiude il Vaticano II con una dichiarazione sulla superiorità dell’umanesimo cristiano su qualsiasi altro. Dopo che il Padre si è dimostrato antropocentrico chiedendo all’Unigenito suo Figlio di divenire uomo, l’uomo, la fedeltà all’uomo, a tutto l’uomo e a tutti gli uomini, non solo non contrastano o non rivaleggiano con il teocentrismo, ma divengono ad esso coessenziali. Giovanni Paolo II ha cancellato definitivamente l’antinomia presunta tra affermazione dell’uomo e affermazione di Dio.
Una delle perle del pontificato di Giovanni Paolo II è il martirio del giovane sacerdote di Varsavia Jerzy Popiełuszko del 19 ottobre del 1984. Poche ore prima di essere barbaramente trucidato, in una meditazione pubblica sui misteri dolorosi del rosario, egli così si espresse: «Oggi è necessario parlare molto della dignità [godnośc] dell’uomo per rendersi consapevoli che l’uomo supera tutto quanto può esistere al mondo, ad eccezione di Dio; supera la sapienza del mondo intero. Salvaguardare la dignità per poter rendere più grande il bene e vincere il male – significa rimanere interamente libero anche nelle condizioni di schiavitù esteriore, rimanere se stessi in ogni situazione della vita. Come figli di Dio non possiamo essere schiavi. La nostra figliolanza di Dio porta con sé il patrimonio della libertà, la libertà data all'uomo come misura della sua grandezza». La dignità, la dignità dell’uomo è quel che emana dal volto, dalla parola, dalla storia di Giovanni Paolo II. E la dignità è data dal fatto che nella vita c’è qualcosa che è più grande della vita per cui vale la pena dar via la vita stessa. Una vita nella quale non sia presente qualcosa più grande della vita perde di dignità.
Il 13 maggio del 1981, giorno in cui la Chiesa celebra la memoria della Madonna di Fatima, Mehmet Ali Ağca spara al Papa. Dove si trovava e come visse quei giorni?
In Italia era in corso il referendum sulla legge 194 (aborto) e si trascorrevano le giornate precedenti la votazione passando di casa in casa, di porta in porta per presentare gli argomenti a sostegno della vita, della vita dell’uomo. La notizia ci raggiunse mentre era in corso quell’estremo tentativo. Giovanni Paolo II nei giorni e nelle settimane precedenti aveva pubblicamente denunciato due cose: la prima è l’inganno della coscienza che con una tale legge si perpetrava non chiamando più le cose col loro nome. Infatti l’eliminazione di una persona è chiamata «interruzione volontaria della gravidanza». L’accecamento sistematico e metodico della coscienza era stato chiaramente denunciato dal Pontefice come un delitto assai più grave di quello dell’uccisione stessa. La seconda riguardava i fondamenti del diritto. La vita, il diritto alla vita è a fondamento di tutti gli altri diritti in quanto afferma il soggetto personale stesso di ogni e qualsiasi diritto. Minando questo diritto basilare si sarebbe posta una pessima premessa per la violazione anche degli altri diritti. Non solo, ma chi si fosse reso politicamente responsabile di un tale attentato in una materia così rilevante, non sarebbe più stato affidabile e credibile in questioni socio-politiche di minor rilievo.
Fu nel bel mezzo di questa temperie che il terrorista turco cercò di uccidere il successore di Pietro con una calibro nove. Tutti oggi sanno che in quell’udienza Giovanni Paolo II avrebbe dato l’annuncio della fondazione di un istituto di studi sulla famiglia.
In quello stesso pezzo di terra in cui Pietro, il pescatore di Galilea, aveva reso la sua estrema testimonianza a Gesù Cristo, a Giovanni Paolo II fu dato di versare il suo sangue nell’esercizio di quel medesimo ministero e di quella medesima testimonianza.
Gli ultimi anni di pontificato furono di sofferenza e amplificarono ancora di più la testimonianza, l’annuncio cristiano. Ciò che colpì quando tornò alla Casa del Padre, il 2 aprile 2005, erano le folle che gli resero omaggio, praticamente tutti avevano un ricordo, una storia di condivisione con lui…
Mentre i grandi di questo mondo occultano la loro sofferenza e la loro morte, Giovanni Paolo II non si ritirò per nascondere o privatizzare. Al contrario, la sua passione e la sua morte divennero un evento pubblico di raggio mondiale. Questo è tipicamente cristiano. Uno dei punti che rende il cristianesimo particolarmente credibile e singolare è proprio quello della morte. «In Cristo» infatti, a «coloro che gli appartengono» è dato non solo di vivere in altro modo, ma anche di vivere la sofferenza e la morte in maniera ignota al mondo. Nella memorabile omelia tenuta nel campo di Brezinka (contiguo ad Auschwitz) Giovanni Paolo II meditando sul martirio di Massimiliano Maria Kolbe evidenziò che questi non era “morto”, ma aveva fatto dono della sua vita, trasfigurando così, già fin d’ora «l’ultimo nemico». La sapienza legata all’esperienza della prossimità alla morte Giovanni Paolo II l’ha offerta notoriamente alla Chiesa e a tutti gli uomini nella lettera Salvifici doloris.
In quegli ultimi giorni di marzo, fino all’inizio dell’aprile 2005 i bambini raccolsero ed espressero molto bene quel che stava accadendo nei loro disegni e nei loro pensierini.
Il fatto che il cristiano si riconosce non solo da come vive, ma anche da come muore, è di particolare attualità in questi mesi in cui lo sfondo di morte si è impadronito dello scenario mondiale lasciando tutti attoniti. È tornata luminosamente in evidenza la morte cristiana.
Papa Francesco ha scritto che San Giovanni Paolo II “ha vissuto completamente immerso nel suo tempo e costantemente in contatto con Dio” è stato “una guida sicura per la Chiesa in tempi di grandi cambiamenti”. Come si incarna oggi la sua eredità?
Il primo erede è il figlio. Chi ha avuto la Grazia di stare nell’irradiazione della paternità di un tale Padre (e sono in tanti), qualora non la dimentichi o non la tradisca, può, a sua volta, generare e portare frutto.
L’immersione, l’immanenza al tempo, al proprio tempo, cui fa riferimento Papa Francesco, quale risvolto necessario del nesso con l’eternità di Dio è un’indicazione di metodo di grande rilievo per quello che stiamo vivendo ora.
Una «piaga», un «flagello» si è abbattuto sul mondo e imperversa. A partire dal senso acuto della storia, della teologia della storia, che caratterizzava Giovanni Paolo II, vengono in mente le domande di Gesù: «Quando vedete una nuvola salire da ponente, subito dite: Viene la pioggia, e così accade. E quando soffia lo scirocco, dite: Ci sarà caldo, e così accade. Ipocriti! Sapete giudicare l'aspetto della terra e del cielo, come mai questo tempo non sapete giudicarlo?» (Lc 12, 54ss), «sapete dunque interpretare l'aspetto del cielo e non sapete distinguere i segni dei tempi?» (Mt 16, 3).
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