In Amazzonia le popolazioni indigene abbandonate alla pandemia
Fabio Colagrande – Città del Vaticano
Suor Laura Valtorta appartiene alla congregazione delle Missionarie dell’Immacolata, le suore del Pime. Risiede abitualmente a Manaus, in Brasile, dove da più di un anno fa parte di un’equipe itinerante che lavora al servizio degli indigeni amazzonici. Tre mesi fa però il Covid-19 ha sorpreso il suo gruppo a Iquitos, la principale città dell'Amazzonia peruviana. L’equipe stava partendo per uno degli abituali tour a sostegno delle popolazioni in questa regione, quando la pandemia ha costretti i religiosi a fermarsi nell'area del vicariato San José Del Amazonas. Da qui però suor Laura ha continuato a informarsi circa il diffondersi del virus fra le popolazioni amazzoniche.
Indigeni contaminati e privi di aiuto
“Siamo sempre stati perfettamente coscienti di quello che stava succedendo”, racconta ai microfoni di Radio Vaticana Italia. “Sia perché certe cose le abbiamo vissute in prima persona, sia perché i mezzi di comunicazione permettono di rimanere aggiornati”. La religiosa parla di popolazioni completamente abbandonate alla furia distruttiva del virus. Ottanta gruppi indigeni già contaminati, centinaia i morti. Non sono pochi per piccole comunità composte al massimo da circa cinquecento persone. Strutture sanitarie prive di tutto, scarsi aiuti dalle istituzioni, mentre dilaga l’illegalità e sono soprattutto i più anziani fra gli indigeni, la loro memoria storica, a pagare il prezzo più alto della pandemia. In questo contesto è prezioso il ruolo della Chiesa nel distribuire gli aiuti ma anche nel denunciare le ingiustizie. Suor Laura Valtorta spiega innanzitutto quali sono gli effetti della pandemia fra le popolazioni amazzoniche:
R.- Il primo effetto del Covid sulle popolazioni amazzoniche è sicuramente quello della fame. Appena il virus arriva in una comunità le fasce più povere della popolazione, quelle abituate a lavori giornalieri, si ritrovano senza stipendio e quindi non possono comprarsi da mangiare. L'altro effetto drammatico, a cui abbiamo assistito direttamente coi nostri occhi, è la disperazione di tante famiglie che hanno visto morire i loro cari quasi senza nessuna assistenza. Perché in molte zone, nel momento della massima diffusione del virus, c’è l'assoluta mancanza dei medici e delle attrezzature minime per poter sopravvivere. Qui non mancano solo le terapie intensive, mancano proprio le bombole di ossigeno, per cui le persone muoiono per la mancanza di strumenti sanitari minimi di sopravvivenza. Infine un altro effetto grave del virus tra i popoli indigeni è la morte dei più anziani. Ciò comporta la perdita di un bagaglio culturale immenso. La lingua, i miti, tutta la loro spiritualità, le tradizioni, le danze. Quando una persona anziana dei popoli indigeni muore tutto questo si perde.
Ci sono in questo contesto degli episodi in particolare che l’hanno colpita?
R.- Tra i fatti che ci hanno più colpito, fra i tanti, vorrei ricordare due storie. Quella drammatica di una signora indigena di un piccolo villaggio che era a Iquitos per motivi di salute. La pandemia l'ha bloccata qui, si è ammalata di coronavirus e il 3 maggio improvvisamente le sue condizioni sono peggiorate e abbiamo dovuto portarla all'ospedale. Qui purtroppo non c'erano medici, non c'era ossigeno e quindi ha agonizzato tutto il pomeriggio, mentre il marito la assisteva, e alla fine è morta. Un episodio davvero esemplare dell’abbandono in cui si trovano queste persone. Un altro fatto molto brutto riguarda un impianto per la produzione e la concentrazione di ossigeno per riempire le bombole che la Chiesa locale era riuscita a comprare, con una raccolta fondi, per donarlo all'ospedale. L’impianto stava funzionando bene e il fatto aveva avuto un impatto fortissimo anche a livello politico poiché la Chiesa, in pratica, aveva fatto quello che sarebbe spettato alle istituzioni civili fare. Ebbene, degli ignoti hanno tentato di sabotarlo, metterlo fuori uso e questo è quasi da non credere. Sembra davvero assurdo: una cosa che è lì per salvare la vita di tutti e qualcuno tenta di metterla fuori uso.
Di cosa hanno bisogno in questo momento le popolazioni locali per combattere il virus?
R.- Il sistema sanitario dell'Amazzonia è da sempre assolutamente precario perché comunque questa regione non è mai stata oggetto di particolari investimenti e di attenzioni da parte delle politiche pubbliche. Per cui, soprattutto i settori della salute e dell'educazione sono strutturalmente molto fragili. Qui poi ogni anno, ciclicamente, si devono affrontare altre epidemie: quella della dengue e della malaria. La pandemia del coronavirus si è aggiunta perciò a un sistema sanitario che era già sotto stress. I sistemi sanitari delle grandi città come Manaus e Iquitos sono perciò collassati, non sono stati assolutamente in grado di affrontare la situazione, di resistere a questa onda di morte. Quindi potete ben immaginare l'inadeguatezza dei piccoli ambulatori, sparsi nell'interno della regione, dove mancano i medici, le medicine e qualche volta, per una parte del giorno, l'energia elettrica. In queste condizioni è impossibile affrontare una pandemia di questo tipo. Le urgenze, le necessità della popolazione oggi sono quelle basiche: l'alimentazione, il materiale medico di protezione e quello per la cura. Ci stiamo accorgendo però che è necessario anche creare del materiale informativo nelle lingue originarie dei popoli indigeni per spiegare, nelle diverse lingue, che cos'è il coronavirus, come agisce, come fare per proteggersi e tutto quello che può essere utile per dare un’informazione completa. Anche questa infatti è una forma di prevenzione. I popoli indigeni, fra l’altro, proprio per la mancanza di assistenza medica ricorrono spesso alla loro medicina tradizionale. Sappiamo di popolazioni che si difendono dal coronavirus con erbe, radici, infusi, tisane. Quando non ricevono aiuto per proteggersi non gli resta che ricorrere alla loro conoscenza tradizionale.
Si può affermare che c'è addirittura chi considera oggi la pandemia utile per sterminare le popolazioni indigene dell’Amazzonia?
R.- Questa è una domanda molto dura a cui è però necessario dare una risposta di verità. Sicuramente non si troverà nessuna dichiarazione scritta che lo dica apertamente, però i fatti lo dimostrano. Intanto, non è una novità che in Brasile ci sia chi non ama le popolazioni indigene e si oppone alla preservazione della foresta amazzonica. C’è chi, in alleanza con le grandi corporazioni capitaliste internazionali considera i popoli indigeni, la demarcazione della loro terra e tutta la legislazione che protegge la foresta amazzonica degli ostacoli allo sviluppo economico di questa regione. I popoli indigeni sono i principali e gli ultimi difensori dell’ecosistema della foresta amazzonica che è così importante per tutto il pianeta. Costituiscono un freno a questo tipo di sviluppo “ecocida” e predatore, uno sviluppo solo per pochi. Per cui il coronavirus rappresenta in qualche modo il grande alleato, l'alleato ideale per questo obiettivo. La pandemia fa il lavoro sporco, permette di sterminare i popoli indigeni senza macchiarsi le mani di sangue. Non si distrugge la foresta senza distruggere anche chi ci abita. E di fatto, come ho detto, i popoli indigeni sono oggi abbandonati, lasciati in preda alla pandemia. Non credo sia casuale, inoltre, che in questo periodo della pandemia in Amazzonia siano aumentate tantissimo le invasioni illegali nei territori indigeni, sia aumentata l'estrazione mineraria illegale, il disboscamento illegale: insomma, tutte le attività illegali.
Che ruolo sta avendo la Chiesa cattolica in Amazzonia in questa situazione di pandemia?
R.- Qui, in piena pandemia, la Chiesa sta avendo più ruoli. Innanzitutto di mediatrice degli aiuti umanitari: una Chiesa capace di farsi prossima, una Chiesa samaritana. Lo vedo qui in questo vicariato peruviano di San José Del Amazonas che è molto povero di risorse umane e materiali. Un territorio immenso, grande come la metà dell’Italia, popolato da 150mila persone dove non ci sono grandi città ma solo un’infinità di piccole comunità lungo i fiumi. Ebbene, questo vicariato è stato capace di unire le forze con altre organizzazioni, altre associazioni, per canalizzare insieme gli aiuti e arrivare in forma capillare a tutte queste comunità. La lotta contro il coronavirus è una lotta contro il tempo e qui sono stata testimone di come la Chiesa sia stata spesso più veloce delle istituzioni civili, arrivando a sostituirle. Ciò non è sempre una buona cosa, ma quest’azione ha perlomeno costretto le istituzioni a mettersi di fronte alla propria inadempienza, alla propria responsabilità. D’altra parte però la Chiesa qui continua ad essere una voce di denuncia. Non possiamo dimenticare le parole di Papa Francesco all’Angelus di Pentecoste quando ha indirettamente condannato coloro che mettono l’economia al di sopra della salute delle persone. Per cui il nostro ruolo come Chiesa deve essere sempre quello di una voce profetica capace di denunciare chi, per interesse, non va incontro ai bisogni, al dolore delle persone.
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