La lapide sulla tomba di don Ganni, distrutta dall'Isis durante l'occupazione della Piana di Ninive La lapide sulla tomba di don Ganni, distrutta dall'Isis durante l'occupazione della Piana di Ninive

L’Iraq ricorda don Ragheed, ucciso dall’Isis per non aver chiuso la sua chiesa

Il 3 giugno del 2007 a Mosul, terroristi dello Stato Islamico uccisero dopo la messa il 35enne parroco della chiesa caldea dello Spirito Santo, don Ganni, minacciato da mesi, e tre giovani diaconi. Don Basa, allievo e biografo: “E’ stato un martire dell’Eucaristia, continuando a celebrare la Messa anche durante la persecuzione”

Alessandro Di Bussolo - Città del Vaticano

"Quando tengo in mano l'ostia, è Cristo che tiene me e tutti noi uniti nel suo amore". Don Ragheed Ganni, iracheno di Karemlesh, un villaggio della Piana di Ninive, ha 33 anni quando offre la sua testimonianza nella veglia del Congresso eucaristico italiano di Bari, la sera del 28 maggio 2005, che aveva come tema la frase dei 49 martini di Abitene, trucidati durante la persecuzione di Diocleziano "Senza la domenica non possiamo vivere". Due anni dopo, il 3 giugno 2007, appena conclusa la messa della domenica dopo Pentecoste, nella sua parrocchia dello Spirito Santo a Mosul, don Ragheed viene seguito da terroristi dell'Isis all’uscita della chiesa e ucciso insieme a tre giovani diaconi Basman Yousef Daud, Wahid Hanna Isho, e Gassan Isam Bidawed, dopo aver allontanato la moglie di quest’ultimo.  I killer poi collocano attorno ai loro corpi delle auto cariche d'esplosivo, perché nessuno possa avvicinarsi. Solo a tarda sera, la polizia di Mosul riesce a disinnescare gli ordigni e a raccogliere i corpi.

Don Ragheed Ganni, parroco a Mosul, ucciso dall'Isis il 3 giugno 2007
Don Ragheed Ganni, parroco a Mosul, ucciso dall'Isis il 3 giugno 2007

Davanti agli assassini: “Non posso chiudere la casa di Dio”

Alcuni testimoni raccontano che al capo del gruppo di fuoco che si rivolse a lui prima di sparare, dicendogli: “Ti avevo detto di chiudere la chiesa, perché non l’hai fatto?” il giovane prete rispose: “Non posso chiudere la casa di Dio”. "I terroristi - aveva detto don Ragheed quella sera a Bari - pensano di ucciderci fisicamente o almeno spiritualmente, facendoci annegare nella paura. Per le violenze dei fondamentalisti contro i giovani cristiani, molte famiglie sono fuggite. In tempi tranquilli si dà tutto per scontato e si dimentica il grande dono che ci è fatto. Attraverso la violenza del terrorismo, noi abbiamo scoperto che l’Eucaristia, il Cristo morto e risorto, ci dà la vita. E questo ci permette di resistere e sperare".

Chiusa nel 2019 la fase diocesana per la beatificazione

Ragheed era nato a Karemlesh il 20 gennaio 1972. Laureato in ingegneria all’università locale nel 1993, dal 1996 al 2003 aveva studiato teologia a Roma all'Università Pontificia San Tommaso d'Aquino, conseguendo la licenza in teologia ecumenica. Oltre all'arabo, parlava correntemente italiano, francese e inglese. Era corrispondente dell'agenzia internazionale "Asia News", del Pontificio Istituto Missioni Estere. Il 22 aprile 2017, nella celebrazione in memoria dei nuovi martiri nella Basilica di San Bartolomeo a Roma, Papa Francesco ha indossato la stola rossa di don Ganni. Il primo marzo 2018 la Congregazione per le Cause dei Santi ha approvato l’avvio della causa di beatificazione per lui e i suoi diaconi, chiesta dal vescovo caldeo di Detroit monsignor Francis Kalabat. Il 27 agosto 2019 si è chiusa la fase diocesana della causa. La Chiesa caldea ne fa memoria accanto al loro vescovo, monsignor Paulos Faraj Rahho, rapito il 29 febbraio 2008 e e trovato senza vita due settimane dopo.

La biografia di don Ragheed Ganni, scritta da don Basa nel 2017, oggi in molte lingue
La biografia di don Ragheed Ganni, scritta da don Basa nel 2017, oggi in molte lingue

Don Basa: ha celebrato anche se lo minacciavano di morte

“E’ stato un vero martire dell’Eucaristia” secondo don Rebwar Basa, di 6 anni più giovane di don Ragheed, che è stato suo allievo in Teologia ecumenica all’università di Baghdad, e nel 2017, per il decennale della morte, ha pubblicato con Aiuto alla Chiesa che Soffre il libro “Un sacerdote cattolico nello Stato Islamico: la storia di padre Ganni”. In copertina, la lapide della tomba di don Ragheed, distrutta dai fondamentalisti islamici, e oggi ricostruita.

Ascolta l'intervista a don Rebwar Basa

R. - Certamente possiamo definirlo come un nuovo martire dell'Eucarestia, perché anzitutto l'Eucarestia è al centro della vita di ogni cristiano e soprattutto nella vita di un sacerdote. Don Ragheed ha vissuto questo perfettamente: ha celebrato la messa anche nei momenti più difficili, quando la sua vita era minacciata. Tante volte la sua chiesa è stata attaccata, ha perso i suoi cari, i suoi fedeli e nonostante questo ha continuato a celebrare la Messa. Perché sapeva che senza l'Eucaristia non c'è vita, per un cristiano, non c'è unità, non c'è questa comunione con Cristo e con tutta la Chiesa. Perciò don Ragheed ha celebrato sempre con gioia la Santa Messa e ha dato una grande testimonianza anche nei momenti della persecuzione. Per 5 anni ha resistito e l’ultima sua azione è stata la Santa Messa: ha dato la comunione ai suoi fedeli e subito dopo è stato ucciso con tre suddiaconi. Così ha dato anche il suo sangue per Gesù, per la Chiesa e per i suoi fedeli. Quindi veramente lui è un martire dell'Eucarestia.

Una delle ultime foto di don Ragheed Ganni, ucciso a 35 anni
Una delle ultime foto di don Ragheed Ganni, ucciso a 35 anni

Cosa ha lasciato il lei e in chi l'ha conosciuto, ma anche in tutta la Chiesa caldea irachena, la vita e la testimonianza fino al martirio di don Ragheed?

R. - Io e chi ha conosciuto don Ragheed, tutta la Chiesa Caldea, ma anche tutto l'Iraq si sente in debito con don Ragheed che ha amato l’Iraq e la Chiesa dell'Iraq e ha dato la sua vita per la Chiesa e per il suo popolo iracheno. Lo ringraziamo, e sempre cerchiamo di seguire il suo esempio. Per noi lui è un simbolo di come essere veri cristiani, come servire, come donare la vita, come amare anche i nemici e come essere protagonisti che difendono i diritti umani, che difendono i poveri, gli oppressi e chi ha bisogno di aiuto.

La presentazione della biografia nel decennale del martirio

"Quando tengo in mano l'ostia - ha detto nella sua testimonianza al Congresso eucaristico italiano di Bari, due anni prima di morire - è Cristo che tiene me e tutti noi uniti nel suo amore". Il suo martirio e quello dei tre suddiaconi ha unito i cristiani di Mosul?

R. – Certamente il sangue dei Martiri unisce i cristiani come il corpo e il sangue di Cristo uniscono tutti i cristiani nella celebrazione dell'Eucaristia. Don Ragheed è un simbolo dell'unità come tutti i martiri della Chiesa. Negli ultimi anni, in Iraq, ci sono stati tanti martiri cristiani della Chiesa caldea, della chiesa Siro-cattolica, Siro ortodossa e anche delle altre Chiese. Noi cristiani dell'Iraq siamo grati per la loro testimonianza per il loro sacrificio e li ricordiamo come testimoni di Cristo e non come appartenenti a questa o a quella Chiesa. Ma anche i nemici dei cristiani non guardano se uno appartiene alla Chiesa cattolica o ortodossa o protestante: attaccano i cristiani perché sono cristiani. Perciò anche da questo punto di vista dobbiamo essere più uniti, dobbiamo essere fedeli ai martiri che hanno dato il loro sangue per Cristo e dobbiamo lavorare per superare le divisioni e guardare alle cose che ci uniscono. Il sangue di Cristo ci unisce e ci fa un unico corpo e anche il sangue dei martiri ci unisce ed è anche il seme per i nuovi cristiani.

Piana di Ninive, oggi: bruciano i campi di grano degli agricoltori cristiani
Piana di Ninive, oggi: bruciano i campi di grano degli agricoltori cristiani

Qual è oggi la situazione per i cristiani in Iraq e a Mosul, ora che lo Stato Islamico è stato sconfitto?

R. - La situazione in Iraq purtroppo è ancora drammatica, soprattutto per le minoranze fra le quali anche i cristiani. A Mosul la sofferenza è ancora più grande perché quasi tutto è stato distrutto. Pian piano i cristiani e le altre minoranze stanno cercando di riprendere la vita, ma purtroppo ancora c'è tanto odio, tanta divisione. Proprio ieri nel villaggio di don Ragheed Gannì (Karemlesh, nella Piana di Ninive, n.d.r.), dove è stato sepolto, alcuni nemici hanno bruciato i campi di grano dei cristiani. Purtroppo questo non è un buon segno, ma i cristiani della Piana di Ninive stanno cercando di andare avanti, di ricostruire quello che è stato distrutto. Abbiamo fiducia in Dio, che non abbandona i poveri e gli oppressi: la giustizia e la pace alla fine devono arrivare.

Quando è stato nel suo Paese l'ultima volta?

R. - Sono stato in Iraq circa 5 anni fa. Ma oggi che faccio il parroco per i cristiani caldei del Land NordReno-Vestfalia, in Germania, sono al servizio di più di 1300 famiglie cristiane in questa regione. Cerco sempre di essere accanto a loro, non è facile seguire i fedeli sparsi in quattro diocesi, ma faccio tutto quello che posso. E soprattutto so che molti di questi cristiani sono stati perseguitati. Alcuni di loro hanno perso i loro cari in Iraq e ora si trovano qui e cercano di essere sempre fedeli alla loro tradizione, alla loro lingua aramaica e anche ai cristiani che hanno dato la loro vita per conservare la fede.

La pandemia di Covid-19 ha unito la Nazione o la sta dividendo ancora di più, tra chi si può curare e chi non ne ha la possibilità?

R. - La pandemia ovviamente può essere un motivo per unità nell' Iraq, come in tutto il mondo, ma può anche essere un motivo in più di divisione ed egoismo. La Chiesa in Iraq è solidale con la società e sta seguendo tutte le indicazioni dello Stato. Grazie a Dio finora per i nostri cristiani in Iraq la situazione è stabile per quanto riguarda la pandemia. Speriamo che la lotta al Covid-19 sia un’opportunità per pensare alle cose che ci uniscono come esseri umani e figli di Dio, per difendere i diritti umani, per aiutare i poveri. Perciò preghiamo per questo, ma purtroppo nei Paesi dove ci sono conflitti, dove c'è povertà  e tanti problemi politici ed economici non è facile controllare la situazione della pandemia. Ma se c'è unità possiamo farcela, possiamo superare anche questa emergenza.

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Il libro su don Ragheed donato al Papa dalla sua famiglia, a Dublino
03 giugno 2020, 17:43