Padre Sosa: nella crisi del Covid “curiamo” anche la democrazia
Antonella Palermo – Città del Vaticano
Il mondo “distanziato”, la paura di un virus che non scompare e anzi in molte parti dilaga, il rischio di personalismi politici in una fase in cui è fondamentale la bussola orientata sul bene di tutti. E poi lo sforzo di proteggere i deboli, quelli che il Covid non risparmia ma che hanno poche o nessuna possibilità di tutelarsi a dovere, come ad esempio i migranti. La massima autorità della Compagnia di Gesù, il venezuelano padre Arturo Sosa, ragiona a tutto campo con Radio Vaticana – Vatican News nel giorno in cui la Chiesa celebra il fondatore Sant’Ignazio. Quello del preposito generale è uno sguardo ampio sulla missione condotta dall’Ordine, sulle pietre angolari della spiritualità che continuano a essere un faro, e sull’attualità più stringente, il ruolo giocato della Compagnia alla prova del coronavirus:
R. - Nella missione sperimentiamo le stesse prove vissute dalle popolazioni colpite. E, soprattutto, sperimentiamo le conseguenze sociali di questa epidemia. Mi vorrei soffermare su questo aspetto perché, sì, l'epidemia è senz'altro un problema sanitario, che forse sarà superato, ma le conseguenze sociali, economiche e politiche sono veramente qualcosa da prendere molto sul serio. Noi abbiamo cercato innanzitutto di capire come si può continuare a fare il nostro servizio ai più bisognosi in questo contesto. Ci sono tantissime esperienze. Mi viene in mente quello che fanno le Province della Compagnia di Gesù in India, nell'Asia meridionale. Tutte le Province hanno fatto in modo di far arrivare il cibo e le medicine, in modo molto generoso, alle persone che non sono capaci di provvedere da soli.
Abbiamo poi capito che non si può curare se stessi senza curare gli altri, e viceversa. Ci sono tantissime esperienze di accompagnamento, sia personale sia attraverso i social, che sono state fatte – e beninteso, qui non si tratta solo del celebrare le Messe in streaming, ma di essere presenti nella vita delle persone con tutti i mezzi di cui possiamo disporre in questo momento. È stata una esperienza molto complessa e molto interessante, che merita di essere valutata con il tempo. Devo anche dire che l'esperienza vissuta è una conferma del discernimento nella missione ricevuta tramite le preferenze apostoliche universali. Noi abbiamo scelto quattro preferenze che sono state approvate dal Papa, che ci pongono al cuore di ciò che si deve compiere adesso, nel contesto della pandemia: vedere che Dio ci può mostrare come dobbiamo camminare, trasformare le strutture sociali palesemente ingiuste, avere cura del creato e liberamente ascoltare i giovani che sono il seme della speranza per il futuro.
Insomma, la pandemia come occasione di ripensamento di scelte politiche in alcune regioni del mondo?
R. - In tutte le regioni del mondo. Io ho ripetuto spesso che una delle vittime della pandemia potrebbe essere la democrazia, se non abbiamo cura della nostra condizione politica. In questo momento, per esempio, prendere la strada dell'autoritarismo è la grande tentazione di tanti governi, anche di governi cosiddetti democratici. La Compagnia di Gesù, si sa, è molto impegnata nel campo dell'accompagnamento dei migranti. Parecchi Paesi hanno sfruttato questa pandemia per cambiare la politica migratoria nella direzione di restringere il passaggio dei migranti o la accoglienza dei migranti, il che è un grandissimo sbaglio se consideriamo di volere rendere il mondo più fraterno e giusto. In questo momento discriminare nuovamente i migranti sarebbe, ed è, un grande pericolo e sarebbe un segno di un mondo che non desideriamo. Anche sul tema del lavoro, ci sono tantissime imprese che sfruttano questa occasione per licenziare operai o ridurre il salario o non per non pagare quello che si deve pagare o per ridurre i benefici pubblici per la salute... Insomma, la pandemia è una occasione per fare dei passi in avanti o per fare dei passi indietro. E noi dobbiamo esserne molto consapevoli, come Chiesa cattolica e come persone impegnate per la giustizia e la pace, in modo da costruire una società più accogliente, più democratica.
Quale è un criterio imprescindibile che Sant'Ignazio di Loyola suggerirebbe di seguire per il bene maggiore in questo frangente così preoccupante per il mondo intero?
R. - Senz'altro la vicinanza ai poveri è un criterio importantissimo. Se noi non siamo capaci di guardare il mondo da vicino, condividendo lo sguardo dei poveri, che è lo sguardo di Gesù in Croce, allora si sbaglia nel prendere le decisioni. È questo un criterio molto chiaro. Se i poveri non possono essere curati, non possono avere un lavoro, allora il mondo non va bene. Poi, un criterio che è venuto fuori in questo tempo è la cura della casa comune. Se la terra soffre, noi non possiamo abitarla.
Un suo pensiero all'America Latina, sua terra di origine, dove la forza contagiosa del virus è ancora così letale...
R. - Provo un grandissimo dolore nel guardare come la pandemia non si fermi. Ho una grandissima preoccupazione perché non ci sono le strutture sociali né politiche per fare fronte veramente a questa emergenza. Ho il desiderio profondo che si colga questa opportunità per vedere quali siano i cambiamenti da adottare in queste strutture per garantire un futuro migliore per tutti i latinoamericani.
In un’ottica più generale, quali capisaldi della spiritualità ignaziana sono più urgenti nella missione odierna dell'Ordine:
R. - Il cuore della esperienza ignaziana, e quindi della spiritualità, è l'incontro personale e profondo con Gesù Cristo, il Crocifisso risorto, che porta a una tale familiarità con Dio da essere in grado di trovarlo in ogni cosa e in ogni momento. L'incontro con Gesù Cristo diventa una esperienza liberatrice appunto per questo, perché si acquista quella libertà interiore come condizione per essere guidati dallo Spirito, cioè disponibilità piena a fare soltanto ciò che Dio vuole, senza attaccarsi a nessuna persona, luogo o istituzione. Quindi familiarità con Dio, che vuol dire una vita veramente di preghiera e di servizio, ed essere liberi, cioè disponibili a fare ciò che si deve fare. Molto importante è l'Esame, forse una delle caratteristiche meno conosciute della spiritualità ignaziana, esaminare come modo di ringraziare il Signore per il suo manifestarsi nella storia, riuscendo a essere guidati dallo Spirito, completamente attenti a questa guida che è una esigenza della vita fondata sul discernimento nella missione.
Si riferisce all'Esame di consapevolezza...
R. - Esattamente, esame che Sant'Ignazio consiglia di fare almeno due volte al giorno, ma anche di farlo in momenti speciali durante la giornata. Non bisogna staccare la connessione tra la vita ordinaria e la vita nello spirito. Non si può staccare la vita spirituale dal lavoro, tutto va insieme, sennò non funziona. Io ho faticato in questi anni per cercare una parola che mettesse insieme vita e missione. Non sono due cose che si possono separare.
Riguardo alla collaborazione laici e Gesuiti, quali scenari si profilano oggi?
R. - Ricordiamo che Ignazio ha redatto gli Esercizi Spirituali quando era un laico e che l'esperienza degli Esercizi è laicale. Lui non era un prete. Lo è diventato dopo, quando ha visto che era il miglior modo per fare un servizio alla Chiesa in quel momento. Tutta l'esperienza di conversione è stata per lui quella di trovare un metodo, un metodo fatto da un laico, la cui condivisione iniziale era presso i laici. Per me oggi è una grande gioia vedere come si espande la spiritualità ignaziana nel popolo di Dio e come si moltiplicano le persone capaci di accompagnare altri in questo cammino. Vogliamo davvero dare a questo aspetto un'importanza particolare, nel nostro lavoro di gesuiti. Vogliamo cercare di trasmettere a più persone possibili questa esperienza. Io conosco decine di persone laiche veramente esperte negli Esercizi Spirituali che possono accompagnare altri e la cui vita è stata trasformata in un modo tale da ringraziare il Signore. Gli Esercizi Spirituali non trovano barriere sociali: per esempio, nei barrios in America Latina fare gli Esercizi nella vita quotidiana è un dono del Signore.
Come vanno le vocazioni alla vita religiosa gesuita e il percorso formativo per entrare in Compagnia?
R. - Il problema non è il numero, ma la qualità delle persone. Dipende dal luogo dove siamo. Il numero diminuisce in Paesi dove tradizionalmente eravamo più numerosi come l'Europa, l'America del Nord. La qualità è tuttavia molto alta, posso garantire, anche se siamo meno che nel passato. Abbiamo un grande numero di canditati in Africa e in alcune aree dell'Asia e facciamo il grandissimo sforzo per una formazione che è quella da sempre sognata per un gesuita. È una formazione lunga, complessa ed esigente, che resta invariata.
Sant'Ignazio non ha pensato a un ramo femminile della Compagnia...
R. - L'Ordine è quello che è, ma la spiritualità illumina tante altre realtà religiose. Oggi nelle nostre scuole, nei centri di spiritualità, di formazione, nei centri sociali tantissime donne partecipano a livello direttivo, come soggetti ispiratori di alcune attività, condividono la spiritualità e la nostra missione. Non ci sono donne gesuite ma lavoriamo insieme nella stessa missione.
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