Padre Marengo e il sussurro del Vangelo in Mongolia
Benedetta Capelli – Città del Vaticano
Un Paese, la Mongolia, grande 5 volte l’Italia. Distese immense anche tra un villaggio e l’altro, 1300 battezzati su 3,5 milioni di abitanti, per il 30% una popolazione nomade, un terzo del totale vive al di sotto della soglia di povertà. E’ una Chiesa di periferia, piccola ma dalla testimonianza silenziosa, attenta, espressione dell’amore di Gesù per chi è lontano da lui, l’unica grande risorsa che non manca mai anche nei momenti più duri. Una Chiesa alimentata dalla dedizione di alcuni religiosi che qui sperimentano ancora di più il senso di comunità e fratellanza. Raccontano che il pastore ha davvero l’odore delle pecore perché si vive soprattutto di pastorizia.
Una missione nel freddo
Dal 2003 i Missionari della Consolata, famiglia religiosa fondata dal beato Giuseppe Allamano nel 1901, sono in Mongolia, ad Arvaiheer, nella regione di Uvurkhangai. Le attività messe in piedi rispondono alle esigenze di un piccolo gregge, alle necessità, ai bisogni concreti delle persone così c’è il dopo-scuola per i bambini, ci sono le docce pubbliche, si sta portando avanti un progetto di artigianato per le donne, il day care center e il gruppo per il recupero di uomini con problemi di alcolismo.
Non annunciatori muti ma testimoni
Da 17 anni è lì padre Giorgio Marengo, classe 1974, nativo di Cuneo ma trasferitosi poi a Torino, con un passato da scout e studi teologici a Roma, dove ha conseguito la Licenza e il dottorato in Missionologia. Dopo l’ordinazione nel 2001, i suoi incarichi si sono svolti quasi interamente in Mongolia. Lo scorso aprile il Papa lo ha nominato prefetto apostolico di Ulan Bator, elevandolo a vescovo e assegnandogli la sede titolare di Castra Severiana.
Stamani alle 10 il prefetto della Congregazione per l'evangelizzazione dei popoli, il cardinale Luis Antonio Tagle, “un grande punto di riferimento” lo definisce padre Giorgio, presiederà la messa nella Basilica della Consolata a Torino. Diventerà così vescovo in Italia e non in Mongolia, dove spera di tornare presto. Le norme anti–Covid in vigore nel Paese asiatico però sono al momento molto stringenti, con la chiusura dei luoghi di culto, non si concedono visti per entrare e anche per questo si è scelto di celebrare in Italia. Ma cosa significa essere vescovo in Mongolia:
R. – E’ una grazia grande, del tutto inaspettata e gratuita, un ulteriore passo nella chiamata che il Signore ha voluto rivolgermi mandandomi in Mongolia. Essere vescovo in Mongolia credo assomigli molto al ministero episcopale della Chiesa delle origini, è molto simile a quello che oggi è la missione in Mongolia. La Chiesa è una realtà molto piccola, è una minoranza ma esiste questo gruppo di fedeli mongoli che ha scelto, con grande coraggio e anche senso di responsabilità, di seguire il Signore ed entrare a far parte della chiesa cattolica. Quindi essere vescovo in Mongolia assomiglia molto a quello che hanno vissuto gli apostoli all'inizio. Il cristianesimo in Mongolia in realtà esiste, è stato vissuto e praticato in epoca antica. Si sa che prima del 1000, il cristianesimo di origine siriaca, cosiddetto nestoriano, era presente e aveva in qualche modo messo radici anche in Mongolia. Poi però per vari motivi storici-culturali, dopo l’epopea dell’impero mongolo, la pratica cristiana è scomparsa letteralmente ed è prevalsa la tradizione buddista – tibetana che si è poi incarnata nella realtà, dando vita ad una forma di buddismo molto originale che si chiama buddismo mongolo. Per cui di fatto per molti secoli il cristianesimo non era stato più vissuto, motivo per cui oggi, a livello popolare, si ritiene che il cristianesimo sia qualcosa di nuovo, venuto dall'estero in anni recenti, magari non ricordandosi che c'era una pagina di storia ben più antica. Quindi essere vescovo in Mongolia è un dono molto grande e una grandissima responsabilità che sento, per cui anche tremo, e sento anche la gravità, nel senso bello della parola, di questo dono. Ci avvicina al vero senso della missione. Essere vescovo per… certamente per coloro che sono già cristiani, per aiutarli a crescere nella fede, ad approfondire la loro sequela di Cristo, nello stesso tempo tenendo conto della società che ancora praticamente non si è confrontata realmente con il Vangelo.
La sua tesi di laurea aveva come titolo: “Sussurrare il Vangelo nella terra dell'eterno cielo blu”. Cosa significa vivere questo? In un’intervista lei ha detto di volere innanzitutto ascoltare. Quindi c'è questo sussurro, il silenzio, l'ascolto: è tutta una dimensione molto intimistica anche se vissuta in una comunità. Come si vive in prima linea questo sussurro?
R.- Innanzitutto siamo debitori a chi ha coniato questa espressione che è l’arcivescovo indiano Thomas Menamparampil, arcivescovo emerito di Guwahati, un grande missionario, un grande uomo di Dio che, da uomo asiatico quale è, ha avuto questa intuizione creativa, descrivendo la missione come il sussurrare il Vangelo al cuore dell'Asia. Lui lo presentava per l’Asia in generale e io l'ho voluto applicare alla Mongolia. In sostanza, è molto concreto questo, è semplicemente un modo sintetico, un po' allusivo per dire che la missione parte innanzitutto da un ascolto profondo del Signore che ci manda, dello Spirito che ci abita e ci plasma, e del popolo a cui si è inviati quindi concretamente delle persone con una loro storia, una loro cultura, con delle radici profonde. Come dice spesso Papa Francesco, e prima di lui Benedetto XVI, la missione più che voler diffondere un messaggio a tutti i costi è veramente un dono di grazia che cerchiamo di offrire noi per primi che lo riceviamo. Concretamente vuol dire dedicare del tempo a questo ascolto profondo del Signore che ci manda e delle persone a cui siamo mandati, per entrare in una empatia reale. Significa dedicare tempo a conoscere e studiare la lingua, ad affinare quegli strumenti che ci permettono di entrare in un dialogo vero con la gente, a capire i loro punti di riferimento, la loro storia, le loro radici culturali e religiose. E allo stesso tempo, in tutto questo, essere fedeli al Vangelo stesso, non per questo diventare annunciatori muti, come a volte rischiamo di diventare, ma offrire con molta umiltà, con molta sincerità questa perla preziosa che abbiamo ricevuto che è il Vangelo del Signore. E’ la possibilità di entrare in comunione con lui, di vivere questa vita nuova che lui ci ha portato e quindi il sussurro è comunque un atto coraggioso di annuncio ma fatto in una forma adatta al contesto, alle persone che ci troviamo davanti. Quindi è sia ascolto, sia coraggio nell'annunciare, nel renderci conto che questo messaggio è comunque un messaggio che scardina i punti di riferimento, sia nostri come annunciatori, sia in qualche modo per chi riceve questo annuncio. Quindi è un messaggio scandaloso, direbbe Paolo, la croce di Cristo, il suo farsi uomo, il suo annullarsi per darci la vita si ritrova in ogni passo della nostra esperienza umana. Quindi anche il coraggio di annunciare questo Vangelo anche quando questo può sembrare qualcosa di estraneo, di diverso, di provocatorio.
Sono tante le opere che avete messo in piedi in questa vostra missione, eppure quel che conta – richiamo una cosa che lei ha scritto – non sono le opere in sé perché utili ad arrivare ad un’adesione al cristianesimo ma l’amore che si mostra. Quale il senso dell'amore vissuto in una terra da evangelizzare, in una terra lontana dalla vita che si è fatta prima?
R. – Una parola chiave è la gratuità. “Ti voglio bene perché ti voglio bene” non perché mi aspetto che tu poi in qualche modo risponda, quello non è più amore. E quindi il Vangelo, il Signore questo ce l'ha cercato di trasmettere in tutti i modi, con le sue parole, con le sue opere e anche con la sua vita, morte e Risurrezione. Il dedicarsi agli altri, mettere in campo delle opere è fondamentale perché l'amore è concreto ma dobbiamo essere sempre vigilanti al fatto che, a volte, ci possiamo nascondere dietro un attivismo che ci fa star bene ma che magari non è poi così trasparente e così gratuito. E’ importante offrire quello che possiamo a partire dai bisogni che intercettiamo, dei bisogni della gente, cercando di rispondere a questi bisogni, ma anche nella consapevolezza che comunque non abbiamo le risposte a tutti i problemi che incontriamo perché poi la missione ti porta a contatto anche con tante ferite dell’umanità, situazioni di povertà, di ingiustizie sociali, di differenziazione nella società che vorremmo in qualche modo superare, eliminare ma bisogna essere anche realisti, riconoscere che possiamo fare un piccolo pezzo, farlo bene, farlo con generosità, con altruismo, con interesse e allora forse le persone si interrogheranno a partire da questo amore disinteressato. Non necessariamente aderiranno o decideranno di seguire quello che noi proponiamo però in qualche modo percepiranno che il succo del della nostra vita è lì e quindi penso che abbia un senso.
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