In Myanmar, Conferenza sulla pace di Panglong
Anna Poce - Città del Vaticano
"Non c'è altra via che il dialogo. Il dialogo scaturisce da cuori e menti aperti, da quella passione per la verità senza la quale la società si disintegra" così nei giorni scorsi il cardinale Charles Maung Bo, arcivescovo di Yangon, chiedendo unità alla nazione,in preparazione alla quarta sessione della Conferenza di Panglong del XXI secolo, a Naypyitaw, per porre fine a decenni di conflitto interetnico nel Paese. La Conferenza che si apre oggi e prosegue fino al 23 agosto, porta al tavolo dei negoziati tutti i gruppi etnici armati, fatta eccezione per l'Esercito di Arakan, considerato organizzazione terroristica. Si tratta dell’ultimo ciclo di negoziati di pace sotto il governo di Aung San Suu Kyi, prima delle elezioni dell'8 novembre.
Unità nazionale e democrazia
Il cardinale Bo ha ricordato la visione dei martiri birmani, gli eroi dell’indipendenza del Paese, tra cui il generale Aung San, che sognavano "una nuova nazione unita" dopo il colonialismo inglese e l’invasione giapponese. "La loro visione - ha affermato - era quella di costruire sulle nostre fertili e vitali differenze, e così plasmare un popolo fiero e unito". "Onoriamo il loro sacrificio – ha aggiunto il cardinale -, impegnandoci umilmente per l'unione della nazione". Il porporato ha spiegato come il crudele assassinio dei martiri, 73 anni fa, il 19 luglio 1947, abbia segnato l'inizio di decenni di divisioni, conflitti e oscurità per il popolo del Myanmar - l'esatto opposto di quella nobile visione. "Quell'atto di tradimento - ha precisato – ha dato inizio ad un'epoca spietata, con fratelli e sorelle messi l'uno contro l'altro inutilmente".
Il presidente della Federazione delle Conferenze episcopali asiatiche (FABC) ha ricordato poi come anche Papa Francesco abbia chiesto con passione la sospensione di tutti i conflitti, in modo da sconfiggere un nemico comune più grande, la pandemia, e come invece il suo appello sia stato ampiamente ignorato e i combattimenti siano continuati senza sosta nella nazione del sudest asiatico.
Ora i protagonisti dei negoziati di pace hanno l’occasione di cambiare questa storia di morte e sofferenza, percorrendo la via della democrazia, costruendo uno Stato federale, con un governo che si prenda cura di tutti i suoi cittadini, rinunciando alle soluzioni militari in quanto controproducenti e favorendo la cooperazione, la civiltà e la sagacia. L’arcivescovo di Yangon ha spiegato che "un esercito è sufficiente per qualsiasi nazione; un esercito che lavori per la giustizia e la pace; un esercito che comprenda tutti i gruppi etnici, senza alcuna discriminazione" e che questo esercito debba gradualmente passare sotto l’autorità di un presidente eletto democraticamente.
La pace è possibile
"Uno Stato ha il diritto di armarsi e di usare le forze armate per la sua difesa, ma le armi più potenti della democrazia – ha affermato - sono gli strumenti influenti della riconciliazione e della giustizia”. Dimostrando rispetto per il suo popolo, fornendo reti di sicurezza anche ai più poveri, ha concluso il porporato, il Myanmar potrà rivendicare il suo posto in Asia e nel mondo e avvicinarsi alla pace. “La pace è possibile. Pace significa sviluppo. La pace è il nostro destino".
Grazie per aver letto questo articolo. Se vuoi restare aggiornato ti invitiamo a iscriverti alla newsletter cliccando qui