Nuova strage di migranti: un’ecatombe che insanguina il Mediterraneo
Benedetta Capelli – Città del Vaticano
Un grido che sveglia, uno schiaffo che arriva dritto in faccia. “Ho perso il mio bimbo”: urla la madre di Joseph, soli sei mesi vissuti, un futuro tutto da scrivere e che invece si ferma nelle acque di un mare che travolge e uccide. E’ l’ultima storia di una tragedia dell’immigrazione, raccontata tante volte. Ieri due naufragi sono costati la vita a quasi 100 persone. L’Organizzazione internazionale per le migrazioni (Oim) ha parlato di 74 vittime al largo della Libia, in 120 venti erano a bordo dell’imbarcazione, 47 i sopravvissuti. Stesso luogo e altri 20 migranti in un secondo naufragio reso noto da Medici senza frontiere.
Mogavero: un dolore che ci rende indifferenti
Oggi La Guardia costiera italiana ha soccorso e portato a Lampedusa i 169 migranti che viaggiavano a bordo di due imbarcazioni segnalate dalla rete Alarm Phone. Una motovedetta partita per soccorrere una prima imbarcazione con 90 persone a bordo ha intercettato la seconda con altri 79 e poi dopo il trasbordo ne ha recuperati altri 90. In zona c'erano anche 4 o 5 barchini, soccorsi da unita' della Guardia di finanza con l'assistenza di un'altra motovedetta della Guardia costiera.
Otto i naufragi dal primo ottobre, 900 le persone annegate nel Mediterraneo nel 2020, ma si teme siano molte di più. L’agenzia Onu ribadisce il proprio appello alla comunità internazionale e aggiunge che la Libia non è un porto sicuro per riportare i migranti. Stesso appello da Emergency e Open Arms, l’unica nave umanitaria impegnata in mare. Entrambe ribadiscono la necessità di un meccanismo di soccorso europeo che abbia come priorità la difesa della vita. Un appello condiviso anche dal vescovo di Mazara del Vallo, monsignor Domenico Mogavero:
R. - C'è un proverbio siciliano che dice: “Occhio che non vede, cuore che non si addolora”. Questa volta abbiamo visto e abbiamo visto tutti, ma ho il timore che i cuori siano rimasti allo stato di durezza nel quale si trovavano. A me ha provocato angoscia il grido di quella mamma (ndr. La mamma di Joseph, il bimbo di sei mesi annegato). Mi ha richiamato il grido biblico di Rachele che urla il suo dolore e non vuole essere consolata perché il figlio non le sarà più dato. Ecco questa è un'immagine, credo esemplare, in questo momento. Di fronte a tanto dolore, noi restiamo tutti indifferenti, è una pagina di cronaca che prima la archiviamo e meglio è per tutti: questo è il pensiero di quelli che vogliono scaricare la propria coscienza, la propria responsabilità. Io qui da pastore dico che non possiamo voltarci dall’altro lato, prendo in prestito le parole di Papa Francesco, è la globalizzazione dell'indifferenza. Quanto sono attuali ancora oggi le parole del Papa a Lampedusa nell'ottobre del 2013. Quello che succede ci lascia assolutamente freddi e distaccati. C’è soltanto la Open Arms, nessuno si muove e la gente continua a morire e che non si dica che i migranti debbono stare dalle loro parti, perché così siamo in pace noi e sono in pace loro. Come facciamo a stare in pace di fronte a questa ecatombe che quotidianamente insanguina il Mediterraneo? Il nostro cuore piange però noi possiamo soltanto alzare la voce di fronte a una indifferenza generalizzata del mondo della politica, oltre che della cultura e purtroppo, ahimé, anche di tanti nostri fratelli nella fede.
Qual è l'impegno che dobbiamo chiedere alla politica, soprattutto in un momento come questo, alla vigilia della definizione del nuovo patto europeo sull'immigrazione sul diritto di asilo?
R. – La politica ha paura, i governi hanno paura dell'opinione pubblica che purtroppo vive di certe derive di carattere ideologico e sovranista e che hanno condotto verso approdi disumani. La politica ha paura perché ha paura di chi strilla, di chi scrive nei giornali, di chi fa gli assalti su Facebook gridando a destra e a manca. La politica cerca consensi e queste operazioni di salvataggio e di soccorso non creano alcun tipo di consenso, anzi lo alienano e quindi la politica si appoggia a pretesti - questo è stato denunciato pubblicamente in più sedi dalle organizzazioni non governative - a cavilli burocratici per tenere ancorati nei porti questi mezzi che sono gli unici sui quali si può contare per soccorrere questa gente che cerca veramente una speranza e cerca un futuro e ha il diritto di cercarlo. Perché sono i fratelli e la terra d'Africa è una terra che l’Occidente, nel passato e anche nel presente, ha depredato. E adesso se ci chiedono conto di quello che noi abbiamo rubato a queste terre è giusto che noi ci mettiamo dalla parte di chi è tenuto a risarcire per il mal fatto del passato.
Sul fronte immigrazione c’è da affrontare la questione della Libia, Paese dal quale tanti partono e in molti fanno ritorno ma dove regna l’instabilità, anche se qualche segnale di speranza a livello politico si registra...
R. – Chi ritorna in Libia è condannato a morte o perché viene rispedito nel deserto da cui è venuto oppure perché muore per stenti o per violenze varie, quindi non illudiamoci che il rimpatrio in Libia sia una scelta di civiltà, è una scelta omicida. E’ chiaro che nei confronti della Libia in questo momento non c'è nessuno che sia in grado di avere la voce forte per condurre un tavolo di trattativa, su tutti i versanti. Noi stiamo pagando, probabilmente con i 18 marittimi prigionieri a Bengasi, il mancato riconoscimento internazionale delle Milizie del generale Haftar. Se Egitto, Arabia Saudita, Stati Uniti, Francia, che sono potenze che hanno l'influenza nel territorio mediorientale e nordafricana, non scelgono la via della persuasione con tutti i mezzi nei confronti dei libici, questa situazione di incertezza e di morte è destinata a durare.
Qual è l’appello che si sente di fare di fronte all’alto numero di vittime nel mare – che sono vite, ricordiamolo…
R. – L’appello è all’umanità. Quando ti muore un fratello o una madre o una sorella o un figlio nessuno resta indifferente. Non lo è per noi di fronte a questi morti, che sono persone che ci appartengono, sono la nostra stessa carne anche se hanno un colore della pelle diverso e hanno un'origine diversa ma restano nostri fratelli. Come il nostro cuore non si può commuovere di fronte a tanta tragedia? Allora c'è il problema della soluzione immediata dell'accoglienza, ma c'è il problema grande del fenomeno migratorio, che non è iniziato ieri e non finirà domani, e che deve essere affrontato a livello internazionale, con una concertazione politica, economica e culturale tra le nazioni e tra coloro che, nelle istituzioni internazionali, hanno la possibilità di orientare la riflessione e anche le scelte politiche e diplomatiche.
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