Padre Maccalli: la preghiera per me fonte di fede e di speranza
Ad un mese esatto dalla sua liberazione in Mali, dopo due anni di dura prigionia, padre Pierluigi Maccalli - 59enne della Società delle Missioni Africane (Sma) della diocesi di Crema, originario di Madignano (Cremona) - dà voce nell'omelia dello scorso 8 novembre a Roma, all'esperienza drammatica che ha vissuto alla luce della fede e del Vangelo di questa domenica che narra l' "attesa" del Regno dei Cieli.
Riportiamo di seguito l'omelia come pubblicata dall'Osservatore Romano.
La Liturgia di quest’oggi è un invito a meditare su questo tempo di attesa. Il Vangelo terminava con questa parola di Gesù: «Vegliate... perché non sapete né il giorno né l’ora» (Matteo 25, 13). Se avete fatto attenzione, nella preghiera di apertura, la colletta, pregavamo così: «fa’ che alimentiamo l’olio delle nostre lampade perché non si estinguano nell’attesa». Attesa, essere tesi a un incontro, dice un atteggiamento dinamico, soprattutto interiore, molto diverso dall’aspettare. Incrociare le braccia, sedersi, è un atteggiamento più passivo. E forse possiamo anche leggere il Vangelo, la parabola di queste dieci vergini un po’ in questa ottica.
Cinque di queste ragazze aspettavano passivamente. Cinque erano tese all’incontro. Si sono addormentate tutte e dieci. Ma cinque mantenevano questa attesa vigile. Le altre cinque, cosiddette stolte, no. La parabola usa l’immagine simbolica dell’olio: cinque avevano l’olio, cinque, invece, non avevano pensato di portare l’olio. Cos’è quest’olio? Quest’olio che alimenta la lampada, che generalmente sta per fede? Ciò che posso dirvi è ciò che invece ha alimentato la mia fede in questi due anni di prigionia, in attesa della liberazione, avvenuta — oggi è proprio un mese esatto — l’8 ottobre scorso.
Ciò che ha sorretto la mia fede è stata la preghiera. L’olio della preghiera. Mi hanno portato via in pigiama e ciabatte. Un viaggio che non avrei mai pensato sarebbe stato così lungo. Non avevo nulla. Come prete non avevo Bibbia, non avevo breviario, non potevo celebrare messa. Le mie giornate erano scandite dalla preghiera. Mi sono fatto un rosario. Pregavo qualche salmo che ricordavo, qualche spezzone di salmo. La mia messa era semplicemente dire: Signore, questo è il mio corpo, offerto; non ho altro da darti.
Ho pregato con le lacrime, con tanti perché, fino al: perché mi hai abbandonato? Ricevevo solo silenzio. Il grande silenzio del Sahara. Il silenzio di Dio. Ma caparbiamente restavo fedele alla preghiera, perché so che Lui c’è. Che è ascoltato il grido di tanti che sono passati per la notte oscura e di Gesù stesso in croce: Padre perché mi hai abbandonato? E con la preghiera portavo tutti a Dio. La mia famiglia, che tanto mi dava angoscia per lo sconforto che questa vicenda procurava loro. Le mie comunità di missione, che visitavo regolarmente, dalle quali sono stato strappato bruscamente e che da due anni ormai non hanno più la presenza di un sacerdote. Li ho potuti contattare per telefono. Abbiamo potuto incoraggiarci a vicenda. Pregavo per l’Africa e per la pace. Non è la violenza che risolverà i problemi. E mi abbandonavo a Dio: che sia fatta la tua volontà. Mi abbandono a te.
Il deserto è stato poi un’esperienza di essenzialità. Si va all’essenziale. Mi ha ricordato che l’essenziale nella nostra vita è lo shalom, questa armonia tra cielo e terra e tra tutti gli uomini. Essenziale la fraternità. Siamo tutti figli dello stesso Padre. Essenziale il perdono. È il dono super che possiamo scambiarci gli uni gli altri. Non ho rancore verso chi mi ha sorvegliato. Erano ragazzi, giovani col kalashnikov, ma dicevo: non sanno quello che fanno, non lo sanno. E neanche chi ha pianificato forse questo. Lo dicevo a colui che mi portava il giorno della liberazione all’appuntamento. Gli ho detto: ho una parola da lasciarti, che Dio ci faccia capire un giorno che siamo tutti fratelli. Mi ha risposto: no, fratello per me è chi è musulmano. Io ho lanciato il seme, Dio voglia che cresca nel cuore dell’Africa, di tante persone.
Due anni di attesa; è stata lunga. Ma è finita. La preghiera ha alimentato la mia fede e la mia speranza. Mi dicevo a ogni tramonto: speriamo domani. L’olio della preghiera mi ha sostenuto e posso celebrare oggi questa Eucaristia in cui voglio ringraziare Dio e ringraziare tutti voi e le tante persone che hanno pregato per la mia liberazione. Credevo di essere abbandonato e dimenticato, ma mi sbagliavo. Anche questa preghiera corale, di cui sono stato oggetto, penso ci dica proprio la forza di questa comunione. Mi ha fatto pensare a quel passaggio degli Atti degli Apostoli in cui si dice che mentre Pietro era in catene la Chiesa pregava incessantemente per lui. È stata veramente una preghiera incessante dal mio paese, dalla mia diocesi, da monasteri, da persone, amici in Italia e anche al di fuori dall’Italia, che hanno implorato, pregato e credo che abbiano smosso il cuore di Dio. E la mia lettura di questa vicenda è che la preghiera ha aperto le porte della libertà.
Ringrazio Dio e ringrazio ciascuno di voi. Forse possiamo pensare questa vicenda come un paradigma, come la parabola del Vangelo. Ci ricorda oggi che l’olio della preghiera alimenta la fede nell’attesa e dopo l’attesa c’è la festa. In questo mese è la gioia che esce dal cuore di tanti incontri, anche se ancora con lacrime di gioia. Ogni Eucaristia per me è una festa, e anche oggi voi la state animando come una festa.
Grazie ancora e che il Signore continui ad accompagnarci. Vi chiedo ancora di pregare perché altri ostaggi sono rimasti. C’è una suora colombiana, suor Gloria Cecilia Narváez, che pensavamo fosse con noi all’appuntamento, ma non era nel “pacchetto” di liberazione, e altri, uno da più di cinque anni e mezzo. Sono qui a chiedere con voi al Signore di ascoltare questa preghiera corale incessante per chi ancora è ostaggio e spera e attende questa liberazione.
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