Natale in Terra Santa. Fra Patton: con la pandemia riscopriamo Gesù Salvatore
Michele Raviart - Città del Vaticano
Con l’ingresso questa sera nella chiesa di Santa Caterina a Betlemme del neo Patriarca di Gerusalemme, monsignor Pierluigi Pizzaballa, per celebrare la Messa di mezzanotte, inizieranno in Terra Santa le celebrazioni per il Natale. Una festa diversa, a causa delle misure per prevenire il contagio da coronavirus e senza i pellegrini che solitamente arrivavano da tutto il mondo per celebrare la nascita di Gesù, ma non per questo meno sentita e anzi, spiega a Vatican News padre Francesco Patton, un’occasione per riscoprire il vero significato del Natale.
R. - Quest'anno sarà un Natale che potremmo definire in tono minore rispetto agli anni passati, perché gli anni scorsi Betlemme si riempiva di pellegrini già all'inizio del tempo di Avvento e quest'anno invece è completamente vuota. Grazie a Dio c'è una comunità cristiana locale che sente in modo molto forte il Natale e lo celebrerà con gioia, anche se in mezzo a una pandemia che ha colpito in modo molto duro la nostra comunità di Betlemme, perché si stima che circa il 40% della popolazione abbia subito il contagio in questi dieci mesi.
Questo Natale diverso, particolare, può essere un'opportunità, come ricorda spesso il Papa per ritornare al significato vero del Natale, cioè l'arrivo del Figlio di Dio tra l'uomo?
R. - La particolarità di questo Natale è che trovandoci tutti noi in una situazione di grave precarietà e colpiti da vicino, chi più chi meno dalla pandemia, forse comprendiamo meglio cosa significa attendere il Salvatore. Perché di fatto, nel Natale, Gesù viene presentato come il Salvatore ed è questo il messaggio degli angeli ai pastori. In un tempo come era fino all'anno scorso, in cui sembrava che tutto andasse bene, che non ci fossero problemi di sorta e che la medicina avesse già risolto tutte le malattie che abbiamo, vivevamo in una umanità un po' incosciente e un po' anche presuntuosa, che forse pensava di non aver più bisogno di salvezza. La precarietà che noi viviamo oggi ci riporta con i piedi per terra e ci ricorda che abbiamo tutt'ora bisogno di salvezza. Direi anche che ci ricorda che c'è una differenza tra una salvezza puramente fisica e una salvezza più profonda che riguarda anche il senso della vita e il destino finale di ognuno di noi. Gesù Cristo è venuto a portare questa salvezza. Certamente gli sta a cuore anche la nostra vita fisica e la nostra salute, ma a volte ho l'impressione che ci sia più attesa messianica nei confronti del vaccino che nei confronti di Gesù Cristo. Quindi di nuovo tendiamo a deragliare a livello di pensiero e a non comprendere la differenza tra il prolungare la vita e l'avere una vita vera e autentica in Cristo Gesù. Poi la cosa bella e straordinaria del messaggio del Natale è che a portarci la salvezza è un bambino. Qualcuno che, oserei dire, nella società attuale è poco considerato. Basti pensare ai milioni di bambini abortiti, rispetto ai quali Papa Francesco più volte si è pronunciato con parole anche molto forti. Ecco, io penso che ognuno di loro rappresenta in qualche misura anche il bambino di Betlemme che chiede di essere accolto. Spero che ci sia da parte dell'umanità, in questo contesto e in questo tempo così difficile, la consapevolezza che non bastiamo a noi stessi. Che la salvezza non ce l'abbiamo da soli, che non possiamo investire di virtù messianiche il vaccino e che il Salvatore è solo uno ed è Gesù Cristo.
Papa Francesco ha ricordato anche di recente le difficoltà di Maria e Giuseppe nel raggiungere la Terra Santa, le loro paure e speranze. In che modo possiamo rapportare le loro paure di ieri con le paure di oggi?
R.- Le paure di Maria e Giuseppe erano delle paure circoscritte e profondamente sostenute dalla fede, per cui sia Maria sia Giuseppe nei Vangeli sono descritti come persone profondamente credenti. Maria antepone la proposta di Dio a quello che è un suo progetto personale. Giuseppe, in modo misterioso, viene aiutato a capire che anche lui ha un ruolo e un compito dentro questa storia di salvezza che Dio sta portando avanti. Le loro paure fin dall'inizio erano paure di carattere molto concreto, cioè “trovare un posto”: i Vangeli dicono che non c'era posto per loro nei vari alloggi destinati a quelli che venivano a farsi registrare. La grande paura sarà dopo, quando scopriranno che non ci sono solo i pastori e i Magi a cercare il bambino per adorarlo, ma c'è anche Erode che lo cerca per eliminarlo. Quindi si mettono in cammino e diventano esiliati, usando un termine più attuale potremmo dire anche rifugiati, perché di fatto si devono rifugiare in Egitto. Paure di questo tipo, certamente non paure legate alla sfiducia. Purtroppo quelle che io vedo ai nostri giorni, invece, sono paure legate spesso a una sfiducia di fondo, alla mancanza di un orizzonte di fede dentro le persone. Perché le paure concrete dentro un contesto di fede le possiamo affrontare e non ne veniamo travolti, mentre le paure concrete in assenza di un contesto di fede, in assenza di un orizzonte di fede in Dio, quelle ci privano del senso della vita e questo è molto più grave. Creano poi in noi un meccanismo spesso di rivalità, non ci rendono più solidali, ci rendono più agguerriti gli uni contro gli altri.
La Terra Santa è purtroppo da decenni una terra di tensione. Abbiamo ricordato che la comunità di Betlemme è stata particolarmente colpita dalla pandemia: in questo caso, questa situazione ha portato a degli esempi di solidarietà, di maggiore facilità di convivenza tra i popoli?
R. – Sicuramente, perché di fatto degli aiuti anche sotterranei ci sono e anche delle collaborazioni a livello di Ministeri della salute israeliano e palestinese. Dentro la comunità di per sé c'è stato anche un buon senso di solidarietà sia a Gerusalemme sia a Betlemme, che sono le due parrocchie un po' più povere. A Gerusalemme c'è stata la capacità, da parte dei parrocchiani che hanno anche più disponibilità economica, di autotassarsi per aiutare i parrocchiani poveri. A Betlemme anche, quelli della comunità un po' più benestanti hanno messo a disposizione delle risorse da distribuire. Noi come Custodia di Terra Santa abbiamo cercato di intervenire aiutando economicamente soprattutto in tre ambiti. Innanzitutto le spese per i medicinali, perché non esiste un'assistenza sanitaria gratuita a Betlemme, poi le spese per i generi di prima necessità, tra i quali anche gli alimenti, perché di fatto dopo dieci mesi che la gente - i nostri cristiani almeno - è in gran parte senza uno stipendio regolare, si arriva anche a sperimentare la fame. L'altro tipo di aiuto che cerchiamo di continuare è quello di sostenere economicamente la scuola. Di fatto la scuola di Betlemme è rimasta aperta tutto l'anno. Non è stata fonte di contagi o altro e, grazie a Dio, i nostri studenti a Betlemme si stanno preparando anche per la maturità in modo più che dignitoso. Questo è il tipo di solidarietà che siamo a riusciti a costruire dall'interno. Però la situazione è realmente difficile, per non parlare di quella in altri territori, perché se qui diciamo che è veramente difficile, poi penso a quello che sta succedendo in Siria. Lì la situazione è tragica, basta leggere le interviste del cardinal Zenari (nunzio apostolico in Siria, ndr) e si ha una fotografia più che completa di quella che è la situazione.
Tutto il mondo - e non può essere altrimenti - guarderà alla Terra Santa in questo Natale e quest’anno in particolare. Che messaggio, che appello si sente di dare ai fedeli di tutto il mondo?
R.- Dalla Terra Santa sempre arriva non solo il messaggio delle contraddizioni dell'umanità, ma anche un messaggio forte di speranza. Mi piace molto l'immagine che San Giovanni utilizza nel prologo del suo Vangelo per descrivere il mistero dell'Incarnazione. Dice che la luce brilla nelle tenebre e le tenebre non sono state capaci di sopraffarla. Ecco, la luce che brilla nelle tenebre è quel bambino nel quale si rende presente il Figlio di Dio, perché quel bambino è realmente un bambino ed è realmente il Figlio di Dio ed è una luce che brilla nelle tenebre in qualsiasi situazione tenebrosa. Perché la luce anche quando è la luce piccola di un bambino è sempre più forte delle tenebre. Credo che la cosa importante sia che tutti noi sappiamo spegnere, per così dire, le luci della città e fissarci su quella piccola luce che splende dentro la grotta di Betlemme, che splende nel volto di quel bambino che è il bambino Gesù e, accogliendo lui, noi ritroviamo anche la speranza e anche quello che è il senso profondo della vita.
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