Un Natale in punta di piedi tra la neve e il silenzio della Mongolia
Benedetta Capelli – Città del Vaticano
La luce non manca in questo angolo di mondo. Anzi in Mongolia, con temperature che toccano meno 35 gradi, il bianco della neve la riflette ancora di più ma la luce vera, quella che viene dal Bambino che nasce, serve qui come serve in ogni cuore di uomo. Monsignor Giorgio Marengo, 46 anni, missionario della Consolata ed oggi prefetto apostolico di Ulan Bator, si sofferma proprio sul bagliore e sullo sguardo che rivolgiamo a Gesù. E’ in quella essenzialità che si è vissuto il Natale qui, tra distese immense, 1300 battezzati su 3,5 milioni di abitanti, il 30% della popolazione composto da una popolazione nomade.
Fiamma viva
Le celebrazioni sono state trasmesse sul web perché le misure anti–Covid sono stringenti. Sentita la partecipazione dei fedeli riuniti nelle gher, le tende della tradizione mongola, in uno stringersi insieme pur essendo minoranza, un piccolo gregge chiamato a farsi fiamma viva del Vangelo. Un Natale di speranza e di fiducia nonostante la pandemia, come sottolinea proprio monsignor Giorgio Marengo:
R. - Il Natale in una Chiesa di periferia, così come le chiama Papa Francesco, è un Natale molto intenso in realtà, forse proprio perché una situazione di marginalità, di minoranza, di piccoli numeri fa sì che sia veramente una solennità vissuta con fede, perché non ci sono altri motivi esterni di particolare evidenza. E’ un Natale vissuto in punta di piedi, se si pensa al resto della società che ha altri punti di riferimento e quindi non si identifica con questa festa che per noi cristiani è così fondamentale. E’ un Natale che ci fa andare all'essenziale proprio perché l'attenzione è portata sul significato vero, originale: la venuta del Salvatore in mezzo a noi. Per persone che credono in Lui questo ha un significato estremamente importante e penso sia anche un Natale di rinnovata esperienza di quanto il Signore ci sta vicino e quindi un Natale che porta tanta speranza nel concreto per una Chiesa piccola, in un contesto di minoranza e di marginalità. Celebrare il Dio con noi, il Dio che veramente è venuto per tutti, il Dio che ha scardinato i riferimenti del mondo, scegliendo la piccolezza per raggiungere tutti è un'esperienza che ci dà tanta speranza per il presente e per il futuro.
Quest’anno la nascita di Gesù avviene in piena pandemia, cosa torna a dirci il Bambino? E cosa sente che sta dicendo ad una Chiesa particolare come quella della Mongolia?
R. - Il Bambino che anche quest'anno contempliamo nella mangiatoia di Betlemme, penso che ci venga a mostrare, con la sua fragilità, quanto il Signore assuma, abbia assunto e continui ad assumere anche la nostra propria fragilità, la nostra debolezza. Mi pare di intravedere l’immagine del buio di quella notte ed i nostri sguardi che sono attirati dalla luce che proviene dalla mangiatoia, in una situazione di difficoltà globale in cui tutti ci troviamo. Credo che il bambino che nasce tra le braccia di Maria, sorretto da lei e custodito da Giuseppe, attira proprio i nostri sguardi, non per estraniarci dalla realtà che è quella difficile che tutti conosciamo, ma per confrontarci, per dirci che esiste questa luce che nessuna tenebra può spegnere, come si legge nel prologo del Vangelo di Giovanni. Nella nostra Chiesa particolare della Mongolia, penso che questo sia un messaggio particolarmente sentito. Papa Francesco ci ricordava in questi giorni il mistero di un Dio che non si difende, che non cerca difese per sé, ma che attira il nostro sguardo e allora credo sia un messaggio anche per la nostra Chiesa, un messaggio di grande speranza e fiducia, per lasciarci amare, lasciarci attirare da questo bambino che ha scelto il tempo e lo spazio, ha scelto le condizioni normali di ogni famiglia. Per una Chiesa come quella in Mongolia, che viene da altre tradizioni culturali e anche religiose, la nascita di Dio nella storia ci ricorda proprio che Dio ha scelto tutto questo, e anche che la fede non è un parafulmine contro le insidie della vita, perché le insidie ci sono per noi come per tutti, ma il fatto proprio che Dio in prima persona abbia assunto tutto questo dà grande speranza, grande fiducia alla Chiesa che è in Mongolia.
Come sta vivendo personalmente questo periodo anche alla luce del nuovo incarico che il Papa le ha affidato pochi mesi fa?
R. - Per me questo Natale 2020 ha un significato un po' particolare perché è il primo Natale da vescovo di questa piccola Chiesa e anche per questo ringrazio il Signore. Sta andando tutto diversamente da come avrei immaginato e anche programmato. Il mio ingresso canonico nella cattedrale è già stato rimandato due volte e continua ad essere rimandato perché ogni volta che lo proviamo a mettere in calendario, 48 ore prima il governo decreta il lockdown e quindi continuiamo a rimandare questo evento. E’ un Natale veramente molto silenzioso e molto raccolto, celebrato solo con 4 persone perché il numero massimo consentito è di 5, nella piccola cappella della Prefettura apostolica insieme a coloro che della Chiesa locale sono i protagonisti: l'unico sacerdote mongolo don Joseph Enkh e l'unico diacono mongolo Peter Sanjaajav e poi altri due sacerdoti missionari come me e stranieri. Un Natale particolare anche per questo, senza la possibilità di incontrarsi, di celebrare insieme, ma ugualmente molto molto significativo.
A causa della pandemia, un Natale ancora più silenzioso degli scorsi anni...
R. - Io vedo in questo un invito all'essenzialità, a non lasciarsi prendere dagli aspetti esteriori. Mi commuove il pensiero delle persone semplici come le signore anziane del centro gestito dalle suore di Madre Teresa che seguono fedelmente i programmi che noi trasmettiamo. Qualche domenica fa, quando ho proposto durante un'omelia di trascorrere un momento di preghiera tutti i giorni accendendo una candela, sono andate subito a chiedere le candele alle suore per poter fare questo momento di preghiera personale anche loro, nella loro semplicità, nella loro età avanzata, con tanti problemi anche di salute. Penso a tutte le altre comunità, quella di Arvajheer nella quale sono vissuto e cresciuto per 14 anni in campagna, nella zona vicino al deserto del Gobi, con la comunità dei missionari e missionarie della Consolata e con tutti gli altri missionari, gli altri fedeli. Quindi un Natale molto particolare per queste condizioni esterne, ma anche l'occasione per viverlo in profondità: in fondo quella notte di Betlemme di duemila anni fa fu una notte come tante altre per la maggior parte degli abitanti della Terra. Solo gli occhi puri dei puri di cuore, delle persone semplici come i pastori e poi come i cercatori di Dio, i Magi, riconobbero in quella notte quell’evento unico e straordinario che segnò la storia e così anche per noi è un momento in cui aguzzare la vista del cuore per andare incontro a questo bambino nella mangiatoia. Sollevando l’Ostia Santa nell'Eucaristia è come avere tra le mani quel piccolo bambino appena nato per noi e per il mondo intero e anche per tutti coloro che non lo conoscono ancora. E’ per questo che la Chiesa che è in Mongolia vuole trarre forza da questo mistero per diventare sempre più missionaria, più autentica testimone della presenza di Dio con noi.
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