Torino, piano freddo: sinergia Chiesa-Comune per i senzatetto
Giordano Contu – Città del Vaticano
Nevica in tutta Europa. Le temperature sono ogni giorno più basse. Per questo già da alcuni mesi nelle principali città italiane è ripartito il piano per l'emergenza freddo dei senzatetto, che quest'anno deve affrontare un ulteriore problema: il Covid-19, che ha costretto a ripensare gli spazi dell'accoglienza e che ha fatto aumentare il numero delle persone in difficoltà. Dalle mense ai dormitori, il distanziamento sociale ha determinato una diminuzione dei posti disponibili, ma non sempre sono state rese disponibili ulteriori strutture per garantire lo stesso livello di assistenza degli anni passati. A Roma 3.000 clochard dormono in strada e otto di loro sono deceduti negli ultimi due mesi. La triste conta è proseguita in questi giorni a Milano, Genova, Firenze, Salerno, Messina. Tra gli esempi virtuosi, invece, c’è l’arcidiocesi di Torino che per prima ha riattivato la rete dell'ospitalità. Lo scorso 22 ottobre ha riaperto i suoi sette ospizi che integrano la rete comunale. E anche quest’anno l’arcivescovo, monsignor Cesare Nosiglia, ha rimesso le sale dell'arcivescovado a disposizione dei senza fissa dimora. L’iniziativa piemontese è partita in anticipo rispetto al 15 novembre, data stabilita dalla normativa nazionale per l’inizio del piano antifreddo, ma che poche città hanno rispettato. Nonostante i ritardi, una miriade di realtà del Terzo settore, religiose e laiche, hanno avviato per tempo gli interventi di aiuto.
La sensibilità spiccata dei torinesi
“La città di Torino ha deciso di anticipare l’avvio del sistema di assistenza proprio perché la questione del Covid-19 impone qualche cautela in più. Inoltre, la posizione geografica fa sì che in questo periodo dell'anno arrivi aria più fredda”. Lo spiega in questo colloquio con i media vaticani, Pierluigi Dovis, direttore della Caritas diocesana di Torino e responsabile regionale del Piemonte e Valle d'Aosta. La ‘capitale delle Alpi’ è particolarmente sensibile nei confronti degli homeless, verso i quali c’è una tradizione di sostegno trentennale. “Da quattro anni la Chiesa torinese ha stabilito un protocollo di collaborazione”, continua, “mettendo a disposizione ambienti adeguati a realizzare dormitori, che nel periodo invernale aumentano la dotazione annua che la città ha predisposto per i senza dimora”. In tutto ci sono circa 800 posti per una popolazione stabile di clochard che si aggira intorno alle 1700 persone.
Sette strutture diocesane per 110 posti
Quest'anno il piano diocesano Home less, heat more, che nei mesi freddi “accompagnerà fraternamente” i senza tetto fino al 30 aprile 2021, è iniziato in una data particolare: il 22 ottobre coincide con il ricordo liturgico dell'insediamento di san Giovanni Paolo II al soglio pontificio. Il progetto prevede 110 posti letto dislocati in sette strutture. A metà dicembre oltre il 95 per cento di questi era già occupato. Il modello applicato è quello della accoglienza diffusa. Ovvero si impegnano numerosi edifici di media grandezza che ospitano gruppi medio piccoli: circa tre o quattro persone in una stanza. “Una scelta che abbiamo fatto per rispettate il più possibile la dignità delle persone”, spiega Dovis, e che oggi, con la pandemia in corso, consente un più efficace controllo della crisi sanitaria. Per esempio, si va dai sei ospiti – che in caso di emergenza posso arrivare a 14 – della parrocchia Grande madre di Dio, ai 25 posti – più altri quattro se c'è la necessità – messi a disposizione nel palazzo dell'arcivescovado. L’edificio offre servizi anche a senzatetto con disabilità. Qui il 24 dicembre l’arcivescovo Nosiglia ha incontrato e fatto alcuni doni ai clochard e a 40 famiglie povere.
L’esperienza preziosa del primo lockdown
Oltre al freddo, quest'anno un secondo pericolo per gli homeless è dato dal Covid-19. La prima ondata del virus ha consentito di accumulare esperienza. Oggi la macchina organizzativa è ben oliata. Così il Piemonte, che è tornato a essere tra le regioni più colpite dalla pandemia, non è stato colto impreparato. Già da marzo i dormitori erano divenuti accessibili per più tempo e in questi giorni le porte restano aperte anche per 18 ore al giorno. Inoltre, se prima della diffusione del virus agli ospiti veniva garantita una cena e una colazione, adesso gli si offre anche il pranzo; uno sforzo oneroso per la diocesi che però consente di limitare al massimo i loro spostamenti. Un altro cambiamento riguarda la rimodulazione degli spazi, con le stanze che ora ospitano meno persone per garantire la sicurezza sanitaria. La sanificazione dei sette dormitori è quotidiana e sono state realizzate ‘stanze Covid’ che, nel caso si riscontri un sospetto contagio, tutela gli altri ospiti in attesa dei soccorsi. Infine, prima dell'avvio del piano di emergenza freddo, i senzatetto sono stati sottoposti al tampone e ogni giorno gli operatori verificano la presenza di eventuali sintomi al momento del loro arrivo nelle strutture.
Una solida sinergia tra Chiesa e Comune
A Torino la macchina dell’accoglienza funziona bene grazie a una solida sinergia tra Chiesa locale e amministrazione pubblica che, valutati i singoli casi e la disponibilità in diocesi, invia gli ospiti sulla base delle richieste fatte. A ciò si aggiunge la coprogettazione con le cooperative sociali e con il volontariato. Si tratta di un sistema composito di servizi sostenuti con fondi comunali, nazionali ed europei. Il piano è molto articolato e si è evoluto durante la pandemia grazie a dormitori aperti 24 ore al giorno, alloggi per la quarantena e nuovi spazi: si va dall’housing first (appartamenti affittati con cui si supera la logica della comunità terapeutica) a progetti tradizionali, come le mense, le residenze collettive, le unità mobili, i servizi educativi, la residenza fittizia, l’assistenza sanitaria e il presidio nella stazione di Porta Nuova. “Sempre più cerchiamo di superare la logica del servizio basata sull’adeguatezza della persona e andiamo verso un’accoglienza che dia autonomia”, spiegano dal comune di Torino. Significa che soddisfare le esigenze primarie (letto, cibo, salute) non è più il primo gradino per l’inclusione (socialità, lavoro, casa). Piuttosto, quest’ultima si cerca di assicurarla dando una dimora ai senzatetto. A dimostrazione di ciò a giugno, dopo la fine del primo lockdown, l’arcidiocesi di Torino ha messo a disposizione di otto clochard una casa in cui hanno abitato autoorganizzandosi, dimostrando “un’ottima crescita personale”. Un’esperienza felice che si è conclusa in autunno, perché la struttura è senza riscaldamento.
Costruire fiducia e investire nel dopo emergenza
Secondo l'ultima stima di Istat, che risale al 2014, sarebbero oltre 50 mila le persone senza dimora assistite in Italia nei mesi freddi. In gran parte si tratta di uomini soli. A Torino sono 1729 i senzatetto. “Quello che differenzia la diocesi da altri enti è che noi non diamo solo da dormire, ma cerchiamo di reinserirle, per quanto possibile, in percorsi lavorativi, abitativi e di volontariato”, racconta il direttore di Caritas Torino. Negli ultimi due anni 15 senzatetto hanno trovato un'occupazione; cinque donne, che da 15 anni vivevano in strada, oggi abitano in una casa popolare; quattro persone con gravi problemi di salute sono state sottoposte a operazioni chirurgiche, tra cui un trapianto di cuore. “Siamo riusciti a fare questo non perché siamo più bravi degli altri”, conclude Dovis, “ma perché abbiamo sfruttato i mesi dell'emergenza freddo per costruire una relazione di fiducia tra gli operatori e chi chiede aiuto”. Lo stesso accade per i clochard con problemi di alcol e droga ospitati dal Centro torinese di solidarietà, una cooperativa di ispirazione religiosa che li avvia nel cammino di riabilitazione e poi li accompagna anche dopo la fine del piano per l’emergenza freddo. Perché peggio di questa crisi – come dice Papa Francesco – c’è solo il dramma di sprecarla, chiudendoci in noi stessi.
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