Myanmar, il racconto di un prete birmano a Roma: non si può aspettare
Antonella Palermo – Città del Vaticano
Quando - nell'intervista che concede a Vatican News - si deve pronunciare la parola 'dittatura' gli si annoda la voce. Il suo cuore e i suoi pensieri sono costantemente legati al suo Paese natìo, il Myanmar dove, secondo i dati più recenti, il 5 per cento della popolazione è costituito da cristiani, circa 700mila sono i cattolici. Padre Maurice Moe Aung è un sacerdote cattolico birmano della Congregazione dei Missionari della Fede. Ha lasciato il suo Paese trent'anni fa per seguire a Roma gli studi di filosofia e teologia; è poi ritornato in Myanmar e negli ultimi anni si ritrova ancora in Italia dove è vicario parrocchiale nella chiesa Madre della Divina Grazia, a Ponte Galeria (RM). Nato nello Stato di Kayah, ai confini con la Thailandia, ha conosciuto l'opera del Pime, che molto ha dato impulso all'evangelizzazione nel Paese asiatico.
Alle radici della Chiesa birmana
Nel corso di un incontro online con alcuni giornalisti, padre Maurice ha oggi offerto una sintesa sulla Chiesa cattolica in Myanmar, andando a ritroso fino al cuore della prima missione cattolica nel centro del Paese, nel sedicesimo secolo. Barnabiti, francescani, gesuiti. Nell’800 sono state fondate scuole, ospedali. Il primo seminario, tuttora attivo, si deve alla Compagnia di Gesù. "Nel ’62, quando il governo militare diventò di matrice socialista, le strutture furono tutte nazionalizzate. Espulsi i missionari, i sacerdoti locali hanno dovuto prendere farsi carico dell’evangelizzazione, con grande senso di responsabilità", spiega Maurice. Solo nel 2005 fu possibile la prima assemblea nazionale della Chiesa cattolica. “Siamo diventati perseguitati e poveri. Non avevamo voce”, racconta il religioso.
La visita del Papa: una luce per il Paese
“La visita del Papa nel 2017 è stata una luce per il Paese”, sottolinea padre Maurice, precisando che è stata una testimonianza di fede, con un grande impatto sociale ed evidenti espressioni di cura del popolo birmano. Si è ricordato che è stata una vera “festa per il dialogo interreligioso”. Un'occasione speciale per mostrare grande solidarietà al Myanmar, soprattutto alla gente emarginata. “Solo dopo la visita del Papa, il cattolicesimo è stato veramente apprezzato”, spiega padre Maurice, precisando che dopo il 1965 non è stato più possibile collaborare tra le varie diocesi. Le attività furono molto limitate a piccole cliniche, orfanotrofi.
In vista della preparazione della messa che sarà presieduta nella Basilica vaticana da Papa Francesco per i fedeli cattolici a Roma, il prossimo 16 maggio, la comunità di coloro che sono emigrati dal Myanmar si è riscoperta più unita, riferisce il sacerdote. "I birmani in Italia sono soprattutto studenti. Le comunità religiose sono numerose e poi ci sono i laici che lavorano", precisa. E scandisce: “Il Sud est asiatico ha sofferto tanto. La Cambogia, il Vietnam, il Myanmar. Non possiamo più aspettare. Il mondo deve aiutarci, con determinazione”.
Che ricordi ha del suo Paese?
R. - Ognuno ama il proprio Paese: le sue origini, le usanze, il paesaggio. La mia famiglia è cattolica. Ci sono però situazioni, così come accade anche in altri Paesi - in alcuni Paesi latino americani, in Vietnam, in Cina - in cui si cerca di sopravvivere al meglio possibile. Fortunatamente sono riuscito ad andare via e a diventare sacerdote.
Si sentiva soffocato nella sua realizzazione di cittadino e nella sua vocazione alla vita consacrata?
R. - Non solo io. Penso a tanti altri giovani che hanno vissuto questo…
C’è qualche episodio, in particolare, che ancora costituisce una ferita difficile da rimarginare anche in lontananza e a distanza di tempo?
R. - Tutta la vita, tutta la vita… Da quando eravamo piccoli. Forse qualcuno potrà dire che non è credibile, ‘sarà una sua invenzione’… però io assicuro che è tutto vero. Un giorno, per esempio, ricordo che arrivarono i militari nella nostra parrocchia. Usarono il nostro telefono senza alcun rispetto, come fossero i padroni di casa, per fini loro. Tanti sarebbero gli episodi da poter raccontare. La Chiesa cattolica si è sempre impegnata soprattutto in opere sociali, ma spesso, per esempio, l’azione di alcune parrocchie è stata presa di mira, controllata, gli aiuti sono stati bloccati…
Cosa vi sostiene ad andare avanti comunque?
R. - Innanzitutto la fede. Non c’è un amore più grande, lo abbiamo sentito nella liturgia di domenica scorsa, che dare la vita per i propri amici. La Chiesa cattolica sta testimoniando l’essenza del Vangelo, l’amore verso il prossimo, senza distinguere razza o credo religioso. Abbiamo lavorato negli anni passati in questo modo, senza usare la violenza, e continuiamo a farlo.
Che cosa è la libertà per lei?
R. - Per me, per noi, è un sogno. Continuiamo a sognare, continuiamo a sperare. La libertà è di poter vivere la propria fede senza dover sempre valutare tante altre cose… Penso che sia per tutti un desiderio primario, il più importante, credo.
Si ricorda lo stato d’animo che aveva quando per la prima volta è uscito dal suo Paese?
R. - Triste.
Non alleggerito?
R. - Non ci si alleggerisce. Per me, sì, si è aperto uno spiraglio. Ma penso ai miei compagni, tanti giovani che sono rimasti in quegli anni… È un ricordo triste.
I suoi familiari?
R. - La mia famiglia vive là. Fino a qualche mese fa le cose andavano un poco meglio, abbiamo vissuto gli ultimi dieci anni in maniera un po’ più libera. Adesso è tornata questa situazione difficile. È un po’ come rivivere quegli anni del passato.
Il Myanmar sarebbe ricchissimo se pensassimo alle sue risorse naturali. Invece ci sono forti disuguaglianze. Come si cancellano?
R. - Si possono superare soltanto con la democrazia. Ultimamente le cose stavano migliorando ma sembra che le speranze siano svanite.
Ha fiducia nelle nuove generazioni? Pensa che potranno innescare una storia virtuosa per il Paese?
R. - Sì, ho fiducia in questi giovani di oggi che sono molto più aggiornati e preparati rispetto a quelli della mia generazione. Sanno come muoversi, su cosa puntare. Non ho parole per dire ciò che stanno facendo, a giudicare da ciò che vedo.
La Chiesa cattolica come convive con le altre religioni e nel mosaico di etnie che avete in Myanmar?
R. - Non abbiamo mai avuto grossi problemi con le altre fedi. Collaboriamo. Come cristiano io mi sento di dire che non avremo tanti problemi su questo aspetto.
Era in Myanmar quando è venuto Papa Francesco?
R. - No, purtroppo. Ero qui. Noi siamo religiosi e se non coincide con il periodo di vacanza, non possiamo muoverci. Non avevo possibilità di rientrare.
A distanza, cosa la colpì di più di quella visita del Pontefice?
R. - La sua grande paternità, la sua tenerezza. La sua umiltà, la sua umiltà. Il Papa ha conquistato il cuore anche dei buddisti, dei musulmani proprio grazie alla sua umiltà.
Di cosa ha più bisogno la vostra Chiesa in Myanmar?
R. - Le cose scarseggiano, avremo bisogno di tanto aiuto, soprattutto per l’istruzione. Le nostre comunità continuano a portare avanti l’educazione dei bambini. Avremo bisogno di aiuto materiale e morale. Aggiungo che è importante che il mondo riconosca le nostre difficoltà, più o meno in Myanmar si vive la stessa situazione di altri Paesi: per esempio l’Iraq, la Siria, la Libia. Devo riconoscere che in questi ultimi mesi se n’è parlato molto. Anche a nome del popolo birmano penso di poter davvero ringraziare. Per l’impegno anche di vari governi.
Che segno è la messa celebrata in Vaticano dal Papa, in programma domenica 16 maggio per i fedeli birmani a Roma?
R. - È un grande segno di speranza e di pace. Ovunque lui sia andato, ha generato la pace, la speranza, l’amore fraterno. Questa domenica non dobbiamo pensare che siamo noi i protagonisti, che è una cosa ristretta. Il Santo Padre è con noi, con il popolo birmano, ma è con tutti i popoli che soffrono le ingiustizie, la guerra.
Ci offre una immagine bella che appartiene ai suoi ricordi di bambino?
R. - Ricordo la mia prima confessione, con monsignor Giovanni Battista, un missionario del Pime. Tremavo, avevo una gran paura. Lui con una lunga barba bianca… Quando sono andato, invece, non ho trovato un piccolo tribunale, come pensavo, con un giudice che ti dà una penitenza. Ho trovato l’abbraccio di un padre, la tenerezza, la misericordia di un padre. Mi è rimasto impresso. Oggi, come sacerdote, quando mi metto a disposizione per le confessioni, cerco di far sentire quella emozione, quel sentimento. Anche oggi, come allora, la confessione è proprio fare esperienza della misericordia del Padre.
È in fondo il bisogno di affetto insito nell’animo di ogni essere umano…
R. - Sì, in effetti. Ricordo pure che quando eravamo là si svolgevano le processioni. Potevamo girare per le strade. Anche i buddisti delle volte si mettono in ginocchio, non proprio in adorazione, ma in segno di rispetto della immagine della Madonna, rispetto per Gesù Santissimo. Ero bambino, facevo il chierichetto, non capivo tanto ma mi è rimasto impresso questo rispetto profondo, nonostante la situazione politica. Io ho studiato in un monastero buddista, quando ero piccolo, ma non ho mai vissuto alcuna discriminazione. Ricordo che ci siamo trovati con la mia famiglia a vivere in una zona dove gli unici cattolici eravamo noi. E allora mio padre invitava a casa nostra delle persone di diverse religioni e pregavamo insieme. Era la seconda metà degli anni Ottanta. Posso dire di aver vissuto una giovinezza abbastanza tranquilla, sotto questo profilo.
Sente di aver vissuto o di essere sopravvissuto?
R. - Ho vissuto. Gli altri non hanno avuto la possibilità che ho avuto io e questo mi dispiace molto perché avrebbero tante potenzialità per sé, per la nazione, più di me.
Che augurio fa al suo Paese?
R. - Di grande pace. Di armonia tra le varie etnie, questo… l’unità nazionale, l’amore.
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