Suor Ann Rose: mi sono inginocchiata per salvare i giovani birmani
Antonella Palermo – Città del Vaticano
Un libro che brucia. Così lo ha definito Andrea Monda, direttore de L’Osservatore Romano nell’introduzione all’incontro che si è tenuto questa mattina a Roma presso il Dicastero per la Comunicazione, con il giornalista Gerolamo Fazzini e la religiosa birmana Ann Rose Nu Tawng. Il libro, uscito lo scorso 6 maggio, "Uccidete me, non la gente" (EMI) è un modo per conoscere più da vicino un Paese dove - come ha sottolineato lo stesso Fazzini - la Chiesa ci sta testimoniando di essere realmente Chiesa in uscita. “Mettersi in ginocchio è un gesto ‘antico’ e forse dimenticato”, ha detto Monda, ricordando una citazione che Papa Francesco fece una volta di don Oreste Benzi: “Per stare in piedi bisogna stare in ginocchio”. Un gesto che può essere percepito come segno di debolezza, invece la debolezza sarebbe non poterlo fare, come ricorda Chesterton: l’uomo, se non può inginocchiarsi, è come vincolato in ceppi, in catene.
Mi sono messa in ginocchio per salvare questo popolo
Compare di fronte allo schermo in tunica bianca. Un volto dolce ma autorevole. Parla birmano, la traduzione è affidata dalla sala di Palazzo Pio, in Vaticano, al sacerdote Peter Lwen. Ann Rose racconta delle due volte in cui si è inginocchiata di fronte ai militari birmani implorando di non usare violenza verso le persone che stavano manifestando per le strade della città, e che sfilavano accanto alla clinica dove presta servizio come infermiera. Un gesto pensato o di slancio? “Non avevo programmato niente - risponde - di fronte a ciò che mi sembrava disumano mi è venuto di difendere, salvare quella gente, quei giovani in pericolo. Questo era il mio unico obiettivo. Non ho pensato di salvare la mia vita, sapevo di rischiare”. E continua soffermandosi sulla potenza della preghiera che molto l’ha aiutata nella vita: “Da lì ho attinto questa forza per aiutare il popolo. Mi ha aiutato a servire il popolo senza fare distinzioni”.
Mi sono meravigliata di essere ancora viva
Ann Rose ricorda di essersi sentita pervasa dall’azione dello Spirito Santo quando ha agito in quel modo. “Ho pensato che Dio si stava servendo di me per salvare questo popolo”. La seconda volta, l’8 marzo, arrivarono tanti feriti in clinica. “Per salvarli abbiamo dovuto portarli in un altro ospedale. La mascherina mi proteggeva. I poliziotti chiedevano i miei dati, facevano domande sulla mia identità. Non sapevo che la foto intanto aveva fatto il giro del mondo e che ero diventata ‘famosa’”. Il racconto procede con il riferimento alle consorelle, orgogliose di lei e alle persone che la incoraggiavano, mentre altri le dicevano, e le dicono tuttora, di stare attenta. “Ho voluto difendere la verità, per salvare la giustizia”, scandisce, pur pacatamente. “Credo che la mia vita sia ancora a rischio”, precisa, spiegando che talvolta i militari vanno in clinica, le fanno domande. “Finora però ancora non mi hanno fatto nulla. I superiori mi tengono un poco protetta. Una volta una donna doveva partorire, io sono andata ad aiutarla senza portare la torcia per non generare allarmi, per non attirare attenzione”.
Abituata a immedesimarsi nel perseguitato
Sulla reazione dei poliziotti, Ann Rose spiega che “loro dicevano di non voler uccidere nessuno, che volevano solo spaventare le persone. E che dovevano farlo per eseguire i comandi”. Poi accenna alla sua storia personale e della sua famiglia di origine: di etnia kachin, è tristemente abituata a vedersi perseguitata fin da piccola. “Noi non abbiamo ricevuto nessuna libertà. Nonostante qualcuno possedesse una laurea, il governo impediva di lavorare in posti statali”. Il prezzo di essere minoranza. “Abbiamo sofferto tanto”. E precisa che ora “il popolo si è compattato molto. Desidera solo la democrazia”. Il gesto del mettersi in ginocchio non è un gesto di debolezza ma un gesto di riconciliazione. E lancia anche un suggerimento per chi non vive lo stato di religiosa: “Anche nelle famiglie ci sarebbe bisogno di fare gesti simili”.
Mi piacerebbe che il Papa si rivolgesse ai capi delle nazioni
La religiosa esprime tutto il suo grazie per la disponibilità di Francesco a celebrare la Messa per il popolo birmano, domenica prossima, in Vaticano. “Sono molto orgogliosa di lui - dice - certamente il calibro internazionale della sua figura fa sì che le sue parole abbiano un valore assai prezioso. Vorrei che si rivolgesse ai capi delle nazioni per salvare le generazioni future del popolo birmano”. E poi insiste nel chiedere a tutti di continuare ad aiutare il popolo ad avere una giustizia e una libertà vere. “Aiutateci ad avere la democrazia”.
Il gesuita Buan Sing: penso ai miei ex studenti in prigione o nella boscaglia
Alla Messa con il Papa non ci saranno solo i birmani di Roma ma anche i birmani che possono venire da altre città. E l’atmosfera sarà il più universale possibile, perché è il desiderio di pace ad essere universale. “Domenica verranno non solo cattolici, ma anche protestanti e buddisti. I buddisti ci dicono che anche se non credono in Dio, credono nella potenza della preghiera”, spiega il religioso in formazione presso la Chiesa del Gesù, a Roma, che prese l’iniziativa di scrivere al Papa ottenendo, con sua somma gioia, di veder esaudita la richiesta di una celebrazione presieduta da Francesco. “Penso che le parole del Papa potranno incidere anche sulle decisioni delle Nazioni Unite. Il Papa, come ha scritto nell’enciclica Fratelli tutti, ha a cuore il cuore di chi è ferito, e così sta facendo con noi”. Padre Joseph si commuove quando pensa ai giovani, suoi ex studenti in filosofia, quando si trovava ancora in Myanmar, che “prima avevano la penna, ora imbracciano il fucile. Prima studiavano, ora sono nella boscaglia a rifugiarsi. Alcuni sono in prigione. Se prendono le pistole per difendere la protesta, dicono che lo fanno perché non hanno altra scelta. Non posso pensarci. Non ci dormo la notte”.
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