Iraq: sette anni fa l'esodo dei cristiani dalla Piana di Ninive
Giancarlo La Vella - Città del Vaticano
Furono costretti a lasciare la loro terra decine di migliaia di cristiani iracheni della Piana di Ninive. L'avanzata dei miliziani del sedicente Stato Islamico provocò un esodo biblico. E ancora oggi molti devono rientrare ancora nelle proprie case. Bisogna non lasciare soli gli iracheni della Piana di Ninive, afferma a Radio Vaticana-Vatican News, don Renato Sacco di Pax Christi, la ricostruzione e il ritorno sarà lungo e faticoso.
Don Renato Sacco, sette anni fa scoppiò l'inferno per i cristiani iracheni della Piana di Ninive. Cosa successe quella notte?
Nella notte tra il 6 e il 7 di agosto di sette anni fa, tra l'altro il giorno della Trasfigurazione e anche l'anniversario della bomba atomica di Hiroshima, il sedicente Stato Islamico, che già da tempo occupava quel territorio - Mosul era già sotto il controllo di questo gruppo -, in quella notte cacciò 100 mila persone dalla Piana di Ninive. Si trattava soprattutto di cristiani e fu un vero esodo biblico. Quasi tutti andarono verso Erbil. Io l'ho saputo perché al mattino parlai con il patriarca, Louis Sako, e con altre persone e quindi ho telefonato ad agenzie di informazione e a molti giornalisti, ma mi fecero capire che questa non era una notizia interessante. L’unica testata che dette la notizia fu proprio la Radio Vaticana. E allora, quando il fatto è uscito allo scoperto, gli stessi giornalisti, che mi avevano snobbato, mi hanno richiamato perché si sono accorti che era avvenuto un qualcosa di drammaticamente grandioso. Era un esodo davvero biblico. Non dimentichiamo che negli anni precedenti, nel 2008, era stato rapito e ucciso il vescovo caldeo di Mosul, monsignor Faraj Raho, e l'anno prima era stato ucciso il padre Rashid Ghani, giovanissimo, insieme a tre suoi accompagnatori. In quella tragedia tanti hanno sofferto. Molte donne sono state rapite, rese schiave sessuali, e migliaia di loro sono ancora in quella tragica situazione.
Quando i cristiani sono riusciti a tornare a Ninive?
E’ passato tanto tempo, perché molti sono rimasti per anni soprattutto a Erbil e ancora oggi molti si trovano lì. Poi, quando lo Stato Islamico è caduto, allora con fatica tanti sono rientrati. Ma non dimentichiamo che prima di tutto la distruzione è stata enorme e lì non si ricostruisce in due minuti, poi c'erano le bombe inesplose, le case minate, c'erano le trappole esplosive, per cui non si poteva rientrare nelle proprie case come dopo un'alluvione, ma la ricostruzione, penso ai centri che io conosco di più come Qaraqosh e Mosul, piano piano, ma direi recentemente, stanno tornando a vivere. Ma per esempio a Mosul, c’è una parte che è completamente distrutta, non è più abitabile, alcune case sono ancora occupate, per cui alcuni non possono rientrare in possesso delle loro case. Diciamo che c’è un ritorno, ma è ancora abbastanza lento e faticoso anche se pieno di speranza.
Ai cristiani e agli abitanti della Piana di Ninive il Papa personalmente ha voluto portare conforto nel corso del suo viaggio a marzo di quest’anno. Che cosa è rimasto di quell’incontro?
Come abbiamo titolato nella rivista di Pax Christi “Mosaico di pace”, io credo davvero che quel viaggio sia stato dirompente per le persone lì, per l'Occidente, per quello che ha detto il Papa e per quello che ha fatto. Mi diceva proprio una suora che in quei giorni del viaggio di Francesco, non si avvertivano diversità religiose, tutti erano iracheni, perché la tragedia riguarda tutti gli iracheni. Quindi credo sia importante che il Papa sia stato vissuto come un segno, una presenza di speranza per tutti e direi anche per l'Occidente, perché ha fatto un bel richiamo alla nostra coscienza. Nessun leader politico nel mondo ha fatto quello che ha fatto Papa Francesco: è andato dall’ayatollah Al-Sistani, ha denunciato la guerra, ha denunciato i mercanti di armi. Poi al ritorno ha posto a noi occidentali la domanda un po’ provocatoria: “Chi ha venduto le armi?”. Tutta la distruzione è stata fatta evidentemente rispondendo ai grandi interessi dei mercanti di armi che ci vedono coinvolti in prima persona.
Si può dire, dunque, che con il viaggio papale sia rinata la speranza veramente in tutti gli iracheni?
Sicuramente, quella è stata un'iniezione di speranza che resterà in circolo e ha messo in loro qualcosa di positivo. Quello che dobbiamo fare è non lasciarli soli, perché i problemi sono tanti: la fatica della ripresa, la convivenza, vincere la corruzione a livello politico. Non dimentichiamo che a ottobre ci saranno anche le elezioni politiche in Iraq, un Paese dilaniato prima dalla guerra e adesso dalla corruzione. Quindi i segni di speranza ci sono, ma, ripeto, non dobbiamo lasciarli soli come abbiamo sempre fatto, andando a portare la guerra oppure rubando le materie prime come il petrolio. Ma ricordandoci, come dice Papa Francesco, che siamo fratelli. Quindi i cristiani iracheni di rito caldeo o di altro rito, i musulmani o gli yazidi sono nostri fratelli e sorelle. Hanno bisogno di tenere viva questa speranza.
Non dimenticando che l'Iraq, come tutti gli altri Paesi del mondo, è alle prese con l'emergenza Covid, con la pandemia…
Si, oltre a tutto questo bisogna fare i conti con il coronavirus il che è una fatica ancora maggiore. Per questo non li dobbiamo dimenticare.
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