L’aiuto della Chiesa per gli yazidi dimenticati
Federico Piana- Città del Vaticano
Nel Kurdistan iracheno i fantasmi esistono. Hanno il volto di uomini, donne e bambini yazidi riusciti a scappare salvando la propria vita dalla furia dello Stato islamico che, nel 2014, ha iniziato a perseguitare la loro comunità religiosa cancellandola dal Sinjar, la tanto amata terra a nord dell’Iraq, al confine con la Siria. Da sette anni vivono nel più completo oblio, dimenticati da tutti. Comunità internazionale e grandi mezzi di comunicazione non si occupano più delle loro sofferenze quotidiane alimentate da povertà ed analfabetismo crescente, non badano più al loro grido disperato nel tentativo di per poter tornare, finalmente, nella propria terra ancestrale.
Campi profughi: unica ‘patria’
Questi fantasmi, secondo i dati più attendibili, sono poco meno di 250mila e sopravvivono in diversi campi profughi gestiti soprattutto da volontari di associazioni non governative. Molti di loro sono assistiti anche dalla Chiesa cattolica che non esita a farsi carico delle loro più stringenti necessità. A Sharya, città della provincia di Duhok, c’è chi si occupa degli yazidi che non sono neanche riusciti a mettere piede in un campo profughi. Sono 17mila persone che vivono di espedienti ancora più duri ai quali il Servizio dei Gesuiti per i Rifugiati in Iraq da tempo offre sostegno materiale e conforto psicologico.
Il dolore di non poter tornare
Padre Joseph Cassar ,da sei anni, è responsabile del gruppo d’aiuto gesuita, conosce bene la situazione politica e sociale, e si è fatto un’idea concreta del perché gli yazidi non possono tornare in possesso delle loro terre nel Sinjar: “Una delle motivazioni – dice- è la mancanza di sicurezza. In quei luoghi ci sono dei gruppi armati che si fronteggiano gli uni agli altri. La seconda ragione è la distruzione della città di Sinjar e dei paesi intorno al distretto di Sinjar: ci sono ancora case rase al suolo e alcune di esse sono completamente minate”. C’è poi d’aggiungere la mancanza di elettricità, di acqua potabile, di un livello anche minimo d’assistenza sanitaria.
Case distrutte e campi minati
“Lo sminamento delle case – ammette padre Cassar- sarà un lavoro che richiederà molti anni. Così come togliere le mine dai campi richiederà uno sforzo enorme, lungo e complicato. Una maledizione per una popolazione in maggioranza dedita all’agricoltura”. Il paradosso è che, in una situazione del genere, si continua ad uccidere anche dopo l’apparente cessazione del conflitto, che però, ci tiene a precisare padre Cassar, ancora non è proprio del tutto terminato: ”Due giorni fa - spiega- nel Sinjar ci sono stati alcuni bombardamenti da parte dell’aviazione turca con lo scopo di distruggere delle presunte postazioni del Pkk, il Partito dei lavoratori del Kurdistan”.
La speranza della solidarietà
La missione dei gesuiti accanto agli yazidi si può riassumere sostanzialmente in un verbo: accompagnare. “Ma anche – aggiunge padre Cassar- continuando ad essere un segno di speranza. E tutto ciò lo facciamo tramite i nostri progetti che si possono raggruppare in alcune azioni principali: visitare le famiglie degli sfollati portando aiuti materiali, ripristinare i diritti grazie all’intervento di un avvocato, dare istruzione tramite una scuola per più di duecento bambini e preoccuparci della salute mentale delle persone provate da un'esistenza insostenibile”. Sono molti, infatti, gli yazidi che, disperati, ogni anno tentano di togliersi la vita. Tutto in un assordante silenzio generale.
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