Hinder, per l'umanità non c’è alternativa al dialogo interreligioso
Francesca Sabatinelli – Città del Vaticano
Cercare e trovare un terreno comune, tra le persone di tutti i Paesi e di tutte le fedi, è possibile purché ci si rispetti in quanto uguali e, soprattutto, privi di sospetto e paura. È questa l’unica strategia per eliminare i conflitti a sfondo religioso. Una indicazione potente che si è sollevata da Dubai, dal Global Interfaith Summit, organizzato in occasione dell’odierna Giornata internazionale per la Tolleranza, presso il Padiglione italiano di Expo 2020. Per tutti i partecipanti il richiamo solenne è stato all’incontro, sempre negli Emirati Arabi Uniti, ad Abu Dhabi, del 4 febbraio 2019 quando Papa Francesco e il grande imam di Al-Azhar, Ahmad Al-Tayyeb firmarono il Documento sulla fratellanza umana per la pace mondiale e la convivenza comune, seguito pochi mesi dopo dall’istituzione dell’Alto Comitato per la Fratellanza Umana.
La condanna della violenza in nome delle religioni
Tutti i presenti hanno espresso forte la condanna di qualsiasi atto di violenza che possa essere compiuto nel nome della religione. “Le forme di violenza commesse nel nome dell’islam – ha detto il padrone di casa, Sheikh Nahayn Mabarak Al Nahyan, ministro della tolleranza e della coesistenza degli Emirati Arabi Uniti – non hanno giustificazione, perché è una religione di pace, perché la santità umana ha uno speciale significato, perché è preziosa la vita che ci è stata data da Dio”. La fondamentale, e tanto desiderata armonia umana, a Dubai ha preso la forma di un incontro che intende diventare una grande opportunità per gli scambi culturali e per vedere l’umanità in azione, animata da spirito di cooperazione e comprensione.
La diplomazia della fede
A delineare la necessità di intensificare “la diplomazia basata sulla fede, poiché promuove il dialogo interreligioso e riconosce il ruolo chiave che i leader religiosi possono svolgere nella risoluzione dei conflitti e nella costruzione della pace”, è stato il Gran Cancelliere dell'Ordine di Malta, Albrecht von Boeselager, anch'egli andato con la memoria al documento sulla Fratellanza umana di Abu Dhabi, che l’Ordine di Malta si impegna a seguire “per rispondere alla chiamata che il Papa e il Grande Imam esprimono in nome dei poveri". Il dialogo interreligioso è cominciato ma ora non si perda tempo: è la sollecitazione di monsignor Paul Hinder, Vicario apostolico dell’Arabia meridionale, presente a Dubai.
Eccellenza, a Dubai si parla di quanto sia necessario ed importante il dialogo tra le religioni per riuscire ad arrivare alla convivenza e all'unità tra gli esseri umani. Davvero le religioni possono rompere gli steccati dell'odio?
Non c’è scelta, altrimenti non sopravviviamo. Allora, secondo me è un fatto basilare che dobbiamo costruire dei ponti, ciò non vuol dire che ci convertiamo all'altra religione, però si tratta di capire meglio in che cosa, o in chi, l’altro crede. E si tratta di stare in dialogo sul campo, dove possiamo collaborare anche con uno scopo comune. Perché il fatto è che noi viviamo nello stesso mondo, abbiamo gli stessi problemi, quando si tratta ad esempio dell’ambiente, o della pace, o della guerra. E non dipende dalla religione, siamo tutti interessati ad arrivare a un mondo più giusto, più pacifico, più umano. Allora tutte le religioni sono davanti ad una sfida, noi come cristiani, gli altri secondo la loro fede.
La concretizzazione della Fratelli tutti…
Sì, certo. È cominciato con quel documento firmato ad Abu Dhabi e poi Papa Francesco ha fatto un documento molto, molto affascinante come la Fratelli tutti. Stiamo lavorando in quella direzione; non mi aspetto che tutto venga realizzato in pochi mesi, perché queste sono le cose che chiedono veramente l'impegno di anni e forse di decenni. Però, se non cominciamo ora, c'è il rischio che perdiamo l'occasione.
Eccellenza, passando allo Yemen, perché di quel Paese non si parla più?
È una tragedia, e il problema rimane. È un conflitto, direi, un po’ troppo dimenticato dall’opinione pubblica mondiale. Però è anche vero, forse, che non tutto va male nello Yemen. Ci sono sforzi per uscire da questo conflitto, che ha molti aspetti: c’è una guerra civile, ci sono interventi da fuori, c’è la malattia, ci sono gli sfollati e i rifugiati, è un mondo complesso, però dentro allo Yemen ci sono anche regioni dove si è relativamente in pace. Ora però abbiamo un po’ paura del conflitto che si concentra su Marib (città ad est di San’a, ndr) che potrebbe essere o la fine della guerra o potrebbe farla esplodere ancora di più. È quello il rischio. Io non sono più potuto andare, c’è un problema di sicurezza, un problema di trasporto, ancora non ci sono voli regolari per San’a, e io dovrei andare lì quando vado in Yemen.
Nel sud l’insicurezza rimane urgente, non è che nel sud ci sia la pace e nel nord ci siano i terroristi. La questione è molto più complicata, più complessa. Quasi ogni giorno, in ogni guerra chi soffre sono i civili, la gente direi normale, è per quello che qualche volta, in passato, ho detto che desidererei che quelli che sono in alto dovrebbero fare le loro riunioni nel Paese in cui si vive il conflitto, per sperimentare cosa vuol dire quando si sentono le bombe o quando si sentono i fucili, anziché stare in un palazzo o in un albergo di 5 stelle e parlare di pace stando protetti. È una realtà. Le voci all’interno dello Yemen dicono apertamente: noi yemeniti potremmo trovare la pace se gli altri ce la facessero fare! Spero che la pace arrivi un giorno e io prego per questo, perché è un Paese bellissimo. Ci sono stato tante volte e mi fa male vedere ciò che è accaduto negli ultimi anni a questa nazione di antica cultura, di gente molto, molto bella e comunicativa.
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