La testimonianza ancora viva dei monaci di Tibhirine
Tiziana Campisi – Città del Vaticano
Lo chiamano lo “spirito di Tibhirine” quello che ancora oggi continua a diffondersi a 25 anni dalla morte dei 7 monaci trappisti sequestrati dal loro monastero nei pressi di Medea, in Algeria, nella notte fra il 26 e il 27 marzo 1996 e poi massacrati. È quella testimonianza di vita evangelica - donata in terra musulmana, in una quotidianità fatta di cose semplici, sorretta da una pacifica convivenza nutrita da un dialogo rispettoso delle diversità - che hanno offerto nel monastero di Tibhirine fr. Christian, fr. Luc, fr. Christophe, fr. Michel, fr. Bruno, fr. Celestin e fr. Paul fino al martirio e fr. Amédée e fr. Jean-Pierre, scampati al sequestro, nella loro longevità. Fr. Jean-Pierre si è spento il 21 novembre scorso all’età di 97 anni, fr. Amedée il 27 luglio del 2008 ad 87 anni. I due religiosi, le “petit reste”, così si definivano dopo l’eccidio dei loro confratelli, hanno continuato a coltivare lo “spirito di Tibhirine” nella trappa di Midelt, in Marocco, che ha raccolto l’eredità della comunità algerina prendendone lo stesso nome, Notre Dame de l’Atlas.
Il Colloquio internazionale a Roma per ricordare i monaci di Tibhirine
E proprio per esplorare l’eredità spirituale dei monaci di Tibhirine, a Roma, il 3 e 4 dicembre il Pontificio Ateneo Sant’Anselmo, ospita il “Colloquio per il 25.mo anniversario del martirio dei 7 fratelli”, organizzato dall’Associazione per la protezione degli scritti dei sette dell’Atlas e dal Comitato scientifico degli Scritti di Tibhirine, sotto l’alto patronato del Pontificio Consiglio per il dialogo interreligioso. La prima giornata è riservata a studenti e vuole sensibilizzare la comunità scientifica alla spiritualità dei 9 trappisti che hanno vissuto a stretto contatto con i musulmani dell’Algeria; la seconda giornata, invece, è aperta al pubblico ed è stata pensata per far conoscere meglio l’esperienza vissuta dai monaci e per contribuire alla diffusione del loro messaggio. C’è in cantiere la traduzione in italiano dei loro scritti, e questo consentirà di approfondire e meditare ancora di più il loro pensiero e la loro fede.
L’esperienza dei trappisti in Algeria
Del Comitato scientifico del Colloquio fa parte dom Thomas Geogeon, abbate della Trappa di Soligny, in Francia, e postulatore della causa di beatificazione dei 7 monaci di Tibhirine, elevati agli onori degli altari l’8 dicembre 2018. “La loro testimonianza offre un esempio di pacifica convivenza fra cristiani e musulmani - spiega -. Il loro dialogo con gli algerini non riguardava questioni di fede, ma si sviluppava nella quotidianità. La loro eredità è nella Fratelli tutti di Papa Francesco”.
Hanno vissuto anzitutto l’esperienza di una vita totalmente data a Cristo, e questa vita donata è andata fino all’ultimo dono che si può fare di se stessi, cioè il martirio, accettare la morte, per il nome di Cristo, per la fede in Cristo, e poi hanno lasciato una testimonianza che parla molto al mondo di oggi del vivere insieme. Loro erano cristiani in mezzo a un Paese musulmano e hanno sempre vissuto in un modo aperto nei confronti dell’altro, anche se l’altro era diverso nella propria fede. È stato un cammino di amicizia nel rispetto dell’alterità.
Ci può descrivere la vita quotidiana dei monaci di Tibhirine?
Era una vita molto semplice, c’era la vita comunitaria e normale di tutti i monasteri del nostro ordine, cioè la preghiera liturgica sette volte al giorno in chiesa, l’accoglienza degli ospiti e poi il lavoro quotidiano, il lavoro manuale per portare avanti la casa. Una particolarità del monastero di Tibhirine era che i fratelli avevano una piccola associazione con 4 padri di famiglia musulmani per portare avanti il giardino, l’orto, il frutteto, e quindi tutti lavoravano insieme e poi alla fine si divideva il beneficio tra la comunità e questi padri. Era già un modo di vivere questa fraternità, e poi, ovviamente, c’era il dispensario di fr. Luc, il medico che aveva un posto notevole nella fama della comunità. Tantissimi algerini conoscono ancora oggi il monastero tramite la figura del medico.
L’Algeria è un Paese a maggioranza musulmana, eppure i monaci sono riusciti a inserirsi in questa realtà…
Sono riusciti perché l’hanno fatto in un modo molto umile, molto semplice. Hanno anzitutto voluto promuovere un dialogo della vita quotidiana. Non ci sono stati grandi confronti con dei musulmani a livello di dogma o di teologia, il loro desiderio era, anzitutto, di imparare a conoscere l’altro, e ovviamente attorno a loro l’altro era musulmano. Poi, penso che per capire bene la loro presenza bisogna ricordarsi che non hanno provato a convertire la gente musulmana verso la fede cattolica, hanno cercato di capire ciò che nella fede musulmana poteva aiutarli, i monaci, a crescere nella loro propria fede e anche come aiutare i musulmani a crescere nella loro fede musulmana.
Quale eredità spirituale hanno lasciato?
Hanno lasciato una fama di santità incredibile nel cuore della gente e l’eredità oggi mi sembra che possiamo trovarla nell’enciclica Fratelli tutti di Papa Francesco: questo desiderio di una fraternità umana, che possa andare oltre alle diverse fedi, poter condividere insieme una fraternità, nonostante la differenza della nostra fede, come costruire giorno per giorno questa fraternità universale che hanno provato a vivere a Tibhirine.
La testimonianza dei monaci di Tibhirine cosa insegna oggi?
Insegna che nella Chiesa non dobbiamo rimanere chiusi su noi stessi e che la Chiesa deve aprirsi alla diversità e alla differenza, cioè aprire un cammino di conoscenza dell’altro è esattamente ciò che fa Papa Francesco. Io a volte mi chiedo se tutto il suo pontificato non era in germine in ciò che hanno vissuto i fratelli di Tibhirine, bisognerebbe chiedergli se è così. Cioè, è proprio questa Chiesa che va alla periferia e i fratelli erano proprio nelle periferie del mondo cristiano essendo in un Paese musulmano, quindi c’era la possibilità di rimanere chiusi e vivere tra di sé, mentre mai la comunità si è chiusa su se stessa, è sempre stata aperta: quando c’erano problemi con la moschea del Paese in cui il monastero è ubicato, si è proposta una sala nel monastero affinché i musulmani potessero pregare e potessero avere un luogo in cui radunarsi, quindi davvero era un’apertura non nella paura, ma nell’accoglienza della differenza.
Gli scritti dei monaci di Tibhirine suscitano ancora tante riflessioni, in particolare il testamento di fratel Christian de Chergé, un testo molto intenso…
Il testamento di padre Christian potrebbe essere il testamento di tutti i fratelli, penso che l’avrebbero firmato tutti insieme. Descrive un po' l’itinerario personale di fr. Christian, cioè la sua infanzia in Algeria, il modo in cui ha vissuto questa ricerca di Dio tramite la propria fede, ma nel confronto con la fede musulmana. Poi c’è un profondo desiderio di incontrare l’altro e di capire qual è il disegno di Dio. Una frase che padre Christian dice nel suo testamento è il fatto che Dio costruisce un’unità tramite delle differenze e quindi il suo desiderio è di radunare attorno a Lui i suio figli, anche se sono diversi.
Grazie per aver letto questo articolo. Se vuoi restare aggiornato ti invitiamo a iscriverti alla newsletter cliccando qui