I vescovi italiani: le morti sul lavoro sono inaccettabili
Andrea De Angelis - Città del Vaticano
"Un Paese che cerca di risalire positivamente la china della crisi non può fondare la propria crescita economica sul quotidiano sacrificio di vite umane". Parole chiare, di giustizia, quelle che i vescovi italiani rivolgono alle istituzioni e alle aziende, perché in Italia non si debbano più contare le cosiddette morti bianche. La Cei le scrive nel messaggio per il prossimo primo maggio, festa dei lavoratori, dal titolo "La vera ricchezza sono le persone".
Tre morti al giorno
I vescovi italiani citano i dati Inail: nel 2021 sono stati 1.221 i morti, cui si aggiungono quelli “ignoti” perché avvenuti nelle pieghe del lavoro in nero, un ambito sommerso in cui si moltiplicano inaccettabili tragedie. Dunque ogni giorno in Italia muoiono almeno tre persone sul posto di lavoro. "Siamo di fronte a un moderno idolo che continua a pretendere un intollerabile tributo di lacrime", ammonisce la Cei, sottolineando come tra i settori più colpiti ci sono l’industria, i servizi, l’edilizia e l’agricoltura. "Ogni evento che si verifica è una sconfitta per la società nel suo complesso, ogni incidente mortale - si legge nel messaggio - segna una lacerazione profonda sia in chi ne subisce gli effetti diretti, come la famiglia e i colleghi di lavoro, sia nell’opinione pubblica".
Il mercato del lavoro
Lo sguardo dei vescovi va anche al mercato del lavoro, ad una produzione che a volte si alimenta di un precariato che contiene elementi di pericolosità. "La crescente precarizzazione - sottolinea la Cei - costringe molti lavoratori a cambiare spesso mansione, contesto lavorativo e procedure, esponendoli a maggiori rischi. Spesso, inoltre, le mansioni più pericolose sono affidate a cooperative di servizi, con personale mal retribuito, poco formato, assunto con contratti di breve durata, costretto ad operare con ritmi e carichi di lavoro inadeguati, in una combinazione rovinosa che - rimarcano i vescovi - potenzia il rischio di errori fatali".
Le parole del Papa
Papa Francesco, nell'udienza generale dello scorso 12 gennaio, ha indicato un preciso compito educativo e di tutela dei più deboli nel mondo del lavoro, che impegna la società civile e la comunità cristiana:
Dobbiamo oggi domandarci che cosa possiamo fare per recuperare il valore del lavoro; e quale contributo, come Chiesa, possiamo dare affinché esso sia riscattato dalla logica del mero profitto e possa essere vissuto come diritto e dovere fondamentale della persona, che esprime e incrementa la sua dignità.
"La complessità delle cause e degli eventi - scrivono ancora i vescovi italiani - richiede un approccio «integrale» da parte di tutti i soggetti in campo: vanno realizzati interventi di sistema sia a carattere statale, sia a livello aziendale. È fondamentale investire sulla ricerca e sulle nuove tecnologie, sulla formazione dei lavoratori e dei datori di lavoro, ma anche inserire nei programmi scolastici e di formazione professionale la disciplina relativa alla salute e alla sicurezza nel lavoro. È importante che lo Stato metta in atto controlli più attenti, che diventino uno stimolo alla prevenzione degli infortuni".
Costruttori del bene
Secondo la Cei un ruolo "decisivo nella tutela della sicurezza del lavoratore e delle sue condizioni di salute" è assicurato dalle modalità di organizzazione dell’impresa sia sotto il profilo dell’adozione delle misure protettive sia della vigilanza affinché esse siano rispettate. Rispetto a ciò, l’appello di Papa Francesco agli imprenditori di Confindustria, nell'udienza del febbraio 2016, risuona quanto mai appropriato:
Voi avete una nobile vocazione orientata a produrre ricchezza e a migliorare il mondo per tutti; siete perciò chiamati ad essere costruttori del bene comune e artefici di un nuovo umanesimo del lavoro.
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