San Giuseppe, papà di tutti: un libro che invita all'ascolto
Andrea De Angelis - Città del Vaticano
Cinque capitoli, un rapporto epistolare tra un giovane conduttore radiofonico e l’arcivescovo metropolita di Lecce, monsignor Michele Seccia. A porgli quesiti, inquietudini, attese condivise è Giuseppe Scarlato, che vuole aprire una riflessione ampia sulla paternità, ponendo al centro del libro scritto a quattro mani il santo di cui porta il nome.
Un dialogo tra generazioni
San Giuseppe, Patrono della Chiesa universale, punto di riferimento per ogni generazione, anche in tempo di pandemia. Proprio la condizione di fragilità, quell’essere “tutti sulla stessa barca”, come più volte ripetuto da Papa Francesco, spinge Scarlato - durante l’isolamento dovuto al contagio - a riflettere su questioni sì aperte, ma mai messe nere su bianco. Per farlo, chiede di essere accompagnato in questa scrittura dall’arcivescovo di Lecce, a cui è particolarmente legato non solo per questioni geografiche. Il risultato è un volume, edito dalla Tai Editrice, il cui titolo non lascia spazio a dubbi: San Giuseppe, papà di tutti.
Giuseppe Scarlato, un libro che è anche un tentativo di dare risposte a domande che attraversano le generazioni. Perché hai scelto di dialogare proprio con monsignor Seccia, quali i motivi che ti hanno portato a scrivere questo libro?
Il mio percorso di fede nasce da domande, da riflessioni e provocazioni. Questo è un po’ anche lo stile che ho, insieme ai ragazzi, nel mio programma radiofonico: il format prevede che i sacerdoti, i vescovi rispondano alle domande dei giovani. Ho grande stima di monsignor Seccia, è pugliese come me, il nostro è un dialogo tra due generazioni. Tutto nasce un anno fa, proprio il 19 marzo 2021 mi veniva comunicata la positività al tampone. Il Covid-19 mi costringeva a casa, in quei giorni mi sono trovato davanti a dubbi, riflessioni che già avevo dentro da anni, ma finalmente ho deciso di dare risposte. Quelle due settimane ho dialogato al telefono con tanti amici ed ho parlato con monsignor Seccia sul significato della paternità, su quali risposte dare ai tanti giovani, ma anche ai tanti papà che ogni vescovo incontra ogni giorno.
Il silenzio di San Giuseppe dà delle risposte, ci conduce alla ricerca del Padre. In che modo il silenzio è presente nel tuo libro? Può sembrare un paradosso che le risposte arrivino anche dal silenzio.
Sì, con monsignor Seccia abbiamo voluto mettere in evidenza quanto sia prezioso e peculiare quest’ambito, un silenzio che predispone. Non un concetto misterioso, ma preparatorio all’ascolto a quello che è il piano di Dio per affidare la nascita e la crescita di Gesù. Questo silenzio parla ai nostri tempi, ha un frastuono che arriva all’anima! In un mondo della comunicazione spesso urlato, dove non mancano toni allarmistici, il silenzio di San Giuseppe è un terreno fertile perché possa essere seminata una parola di vita. Una parola che possa prospettare un futuro rigoglioso. Non è mutismo, ma saper predisporre il cuore all’ascolto. Scrivendo questo libro, inoltre, ho compreso quanto quel silenzio abbia agito e agisce anche oggi. Un silenzio che procede in azione, del resto se ci pensiamo possono esserci azioni silenziose…
Nel libro si parla di inquietudini e di incoraggiamenti. Spesso si tende a nascondere le prime, un po’ come a volte accade con le lacrime. La risposta è dunque trovare il coraggio di affrontarle e di soccorrere chi vive un momento di incertezza? Non avere paura dei propri limiti?
Vedo attorno a me tante inquietudini e le comprendo perché, mi riferisco ai più giovani, molte le ho vissute anch’io. L’importante è saperle esprimere. Altresì è importante che i padri, non solo i genitori, ma anche chi ha un ruolo paterno, si avvicinino a queste inquietudini. Un capitolo del libro parla proprio della vicinanza, perché è questo ciò che serve. Vicinanza e ascolto. Spesso dei ragazzi non riescono a esprimerlo, anche a me è capitato di cogliere di recente la tristezza di un ragazzo foggiano che viveva un forte disagio perché non poteva essere accanto al padre, ricoverato a Milano in attesa di un intervento chirurgico. L’ho aiutato, il suo bisogno era proprio essere accanto a lui in un momento così delicato.
Nel tuo libro si parla di pandemia, ma non di guerra per ovvi motivi temporali. Ti chiedo però cosa si prova in entrambi i casi, nel vedere questi distacchi forzati, da un reparto di ospedale appunto al confine tra due Stati, dove i papà ucraini accompagnano moglie e figli e poi tornano a combattere. Anche il distacco fisico può essere lenito e se sì in che modo?
Certamente. Il mio consiglio pratico è quello di scrivere, di scrivere lettere perché è una vera e propria terapia. Sicuramente è importante che ci siano dei padri supplenti, nel momento in cui dei genitori o dei padri spirituali sono distanti. I ragazzi del mio oratorio spesso mi hanno scritto, giovani lontani dai genitori per motivi di lavoro, ad esempio. Provo a immedesimarmi in questo dispiacere e comprendo che c’è bisogno di affetto e di ascolto da parte di educatori, di religiosi. L’importante è avere un atteggiamento non paternalistico, ma di accompagnamento. Di ascolto, proprio sul modello di San Giuseppe.
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