San Giuseppe lavoratore, custode del mistero del Figlio
Maria Milvia Morciano - Città del Vaticano
Gesù svolgeva un' attività lavorativa che aveva appreso dal padre Giuseppe insieme al "valore, la dignità e la gioia di ciò che significa mangiare il pane frutto del proprio lavoro” (Francesco, Patris corde). Nei Vangeli, la menzione del lavoro di Gesù ricorre in Marco, quando dice: Non è costui il falegname? (6,3) e in Matteo, indirettamente, a proposito del lavoro di Giuseppe: Non è costui il figlio del falegname? (13, 55).
Giuseppe era un falegname?
Nel testo greco dei Vangeli la parola che designa Giuseppe con il suo mestiere è τέκτων (tektōn) e nella corrispondente traduzione latina come faber, sia in Matteo che in Marco, ed è comunemente tradotto nelle lingue moderne come falegname o carpentiere. Il significato del termine però non è pacifico e anzi è stato oggetto di diversi studi. Il suo significato sarebbe più ampio e generico. Un lavoro relativo non solo alla lavorazione del legno ma anche a quello della pietra e altri materiali duri. Inoltre non riguarderebbe oggetti di piccole dimensioni ma anche grandi come parti di strutture edilizie e navali. Il termine tektōn comunque non è specifico e non fornisce significati universali, dal momento che entrano in gioco troppe variabili, se pensiamo ad esempio alle caratteristiche delle risorse naturali locali e alla conseguente cultura materiale. Una possibilità più cauta sembrerebbe essere quella di considerare Giuseppe e quindi Gesù "costruttori". Resta evidente che Giuseppe svolse comunque un'attività specializzata, il che rivelerebbe una condizione sociale non particolarmente abbiente ma di certo non povera.
Le immagini di Giuseppe nella bottega
La figura di Giuseppe non appare nell’arte cristiana in un momento precoce. Dal medioevo la sua figura diventa sempre più presente e attinge ispirazione dai vivaci racconti dei vangeli apocrifi. Le sue immagini si moltiplicano sempre più nel corso del tempo, specie dopo l’affermazione del suo culto, in particolare con Papa Sisto IV che, nel 1479, istituisce per il calendario romano la festa di san Giuseppe. E tra le diverse scene della sua vita, appare anche quella della sua attività lavorativa. Giuseppe è raffigurato anziano ma vigoroso, proprio come è descritto dal vangelo apocrifo Storia di Giuseppe il falegname, risalente secondo ultimi studi al II secolo, in cui si racconta che avrebbe lavorato fino al momento della sua morte, all’età di ben centoundici anni, con il fisico e la mente simili a quelli di “un uomo giovane”.
L'iconografia vede Giuseppe intento a lavorare il legno, talvolta anche alla presenza di Maria e più spesso con il Figlio adolescente che lo assiste. Nella pala di destra del trittico con l’Annuncio a Maria o Pala d'altare Mérode (1427-1432), opera attribuita alla bottega di Robert Campin, sul tavolo da lavoro di Giuseppe ci sono molti oggetti e arnesi, chiaro riferimento al futuro supplizio di Cristo. In particolare c’è una trappola per topi di legno, evidentemente costruita da Giuseppe, che allude alle parole di sant’Agostino del Discorso n. 265, 5: La croce di Cristo fu per lui [il demonio] una trappola; la morte di Cristo, anzi il corpo mortale di Cristo, fu come l'esca nella trappola. Il diavolo venne, afferrò l'esca e fu preso”.
Famose sono le opere di ispirazione michelangiolesca, dai forti contrasti di luce e ombra del pittore belga Gerrit van Honthorst, detto Gherardo delle Notti per le atmosfere notturne che caratterizzano le sue opere, come nella Sacra famiglia nella bottega di carpenteria di S. Giuseppe (1610) o in quello dell’Infanzia di Cristo (1620 circa), dove tutta l’attenzione di Maria e del Figlio, che regge una lanterna o una candela, sono rivolte sull’anziano Giuseppe che lavora il legno con concentrazione e abilità. Di poco più tardi, del 1642, è l’opera del pittore francese Georges de La Tour oggi al Louvre e di simile soggetto: il volto del Figlio è illuminato in modo soprannaturale dalla candela con cui sta facendo luce al padre che fora con un trapano a mano un asse di legno e che con la sua forma sembra presagire la croce.
Nel legno il mestiere di Giuseppe, nel legno il mistero di Cristo
Già da questi esempi capiamo perché il mestiere di falegname ha preso piede per connotare il generico tektōn greco. Nel tempo, prima nella formazione degli scritti che sono seguiti ai più essenziali Vangeli e poi nell’arte, il legno allude alla croce, al simbolo più icastico e rivoluzionario di tutti i tempi. Il mestiere di Giuseppe legato alla lavorazione de legno è parte attiva e coerente del disegno di salvezza divino. E questo rapporto così profondo si legge in modo perfetto nel grande dipinto del pittore milanese, ma che visse a lungo a Firenze, Pietro Annigoni, commissionatogli all’epoca, nel 1963, dal priore della basilica di San Lorenzo a Firenze, monsignor Giuseppe Capretti. In questo dipinto il segno della Croce è ovunque. Nell’incrocio delle linee all’orizzonte, nel tavolo che divide la scena e in particolare nel lungo asse poggiato obliquo contro il tavolo che dal pavimento poi si prolunga nel cielo e diventa luce splendida. Il legno della materia vince e diventa trionfante di Spirito.
Simboli di fede nell'opera di Pietro Annigoni
Ma nell'opera di Annigoni ci sono anche altri particolari che rispondono in modo calzante al sentire dell’uomo moderno, al suo interrogarsi. Giuseppe ha caratteristiche mature ma ancora giovanili, ed è connotato da colori scuri, sia nell’incarnato che nei capelli. Gesù è ancora un bambino e la sua pelle è diafana, i capelli d’oro. Un particolare questo, teso a mostrare e distinguere la natura putativa del padre. Il Piccolo è concentrato a giocare con dei chiodi, presagio della sua passione e morte sulla Croce. Giuseppe lo guarda serio, con amore e senso di protezione, allunga la mano per carezzargli il capo ma sembra fermarsi a mezz’aria come se non osasse, come se fosse consapevole di avere di fronte a sé Dio, proprio come si legge nelle parole dello scrittore francese Ernest Hello (1828- 1885): i suoi sentimenti, approfonditi da questa situazione inaudita, si affidavano al silenzio che li approfondiva ancor di più: e, dal profondo dove viveva col suo lavoro, trovava la forza di non dire agli uomini: “Il Figlio di Dio è qui”. (Fisionomie dei Santi, Fògola 1977).
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