Al carcere minorile di Caltanissetta le reliquie del beato Livatino
Roberta Barbi – Città del Vaticano
Ci sono momenti in cui non c’è bisogno di parole, perché a parlare sono le immagini, non quelle artificiali stampate nelle fotografie, ma quelle che ti si imprimono negli occhi. È stato così per i giovani ospiti dell’istituto di pena minorile di Caltanissetta, quando si sono trovati davanti il sangue secco di cui è intrisa la camicia del giudice Livatino, uno dei tanti, purtroppo uccisi dalla mafia il 21 settembre 1990 e Beatificato dalla Chiesa il 9 maggio 2021. Molte le lacrime sgorgate da un’emozione troppo grande, e un silenzio carico di significati come una nuvola scura è carica di pioggia. Poche le parole che sono riusciti a dire, e che hanno confidato a una delle figure di riferimento più care che hanno, il cappellano padre Alessandro Giamba: “È stato un momento unico e toccante – racconta – si sono commossi perché conoscono questo giudice ora Beato e l’attenzione che aveva nei confronti dei detenuti, ai quali parlava tenendo loro la mano”.
“Sarete giudicati perché credibili, non credenti”
Alcuni degli ospiti presenti all’evento conoscevano la vita di questo magistrato del quale hanno sottolineato la credibilità: “Il Beato Livatino affermava che saremo giudicati non come credenti ma se credibili – afferma ancora padre Alessandro – e lui era una testimonianza vivente di credibilità. Un giovane detenuto di Napoli ha raccontato di essere rimasto colpito dal coraggio di questo giudice che, consapevole di essere in pericolo di vita, rifiutò la scorta pur di non mettere in pericolo la vita di altri. Azioni come queste mettono molto in discussione i giovani, anche quelli che hanno commesso errori nel loro passato”.
Il “giudice ragazzino” con il cuore di un grande uomo
Interessante anche la testimonianza di un ex compagno di scuola del Beato e oggi presidente dell’associazione ‘Amici del giudice Rosario Livatino’, Giuseppe Palilla: “ha raccontato di come Livatino fosse per i suoi amici una presenza sempre prodiga e disponibile – prosegue padre Alessandro – attenta alle difficoltà di tutti, tanto che a volte non rifiutava neppure di aiutare i compagni nelle versioni di latino e greco”. Il cappellano riferisce anche quanto detto dal procuratore di Gela, Fernando Asaro, che ha definito infelice il soprannome che all’epoca venne dato a Livatino: “il giudice ragazzino”. “Nonostante la sua giovane età, infatti, era un uomo con un cuore e un coraggio enormi, che sapeva affrontare la vita come un uomo, specie in un periodo difficile come quello in cui stava indagando sulla mafia di Palma di Montechiaro ed era isolato: nessuno, più a Canicattì, quando lo incontrava per strada, infatti, lo salutava”. Un esempio, insomma, di “testimone credibile di quelli, cioè che vivono ciò che annunciano”, come li chiamava nel suo Pontificato Paolo VI.
Una testimonianza che dura ogni giorno
L’esposizione della camicia insanguinata - tenuta dalla Corte d’Appello di Caltanissetta come referto delle indagini e dei procedimenti penali e venerata come reliquia del Beato Livatino - all’ipm di Caltanissetta è stata organizzata nell’ambito delle celebrazioni per il trentennale della strage di Capaci appena trascorso. “Ma momenti come questo non devono limitarsi solo agli anniversari, bensì proseguire tutto l’anno”, dichiara padre Alessandro, che ha portato con sé all’ipm una delle tante classi dove insegna, nello specifico il terzo anno di un liceo linguistico: “È un modo per far conoscere ai ragazzi la realtà, quella vera”, conclude, ricordando come anche gli altri detenuti, quelli maggiorenni di San Cataldo che hanno ricevuto la ‘visita’ della reliquia, sono rimasti colpiti dalla storia del Beato Livatino, tanto da dedicargli poesie bellissime che sono state lette alla presenza dei vertici della struttura. E stavolta è lui che ha le lacrime agli occhi.
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