La Trasfigurazione di Cristo, luce vertiginosa della Rivelazione
Maria Milvia Morciano – Città del Vaticano
Quaranta giorni prima della sua Crocifissione, Gesù Cristo fu trasfigurato. Nei Vangeli di Matteo, Marco e Luca questo momento è raccontato in modo identico, con le stesse parole, e comunque con lo stesso sviluppo di azione e tempi (Mt 17,1-13; Mc 9,2-18; Lc 9,28-36).
Avviene la rivelazione di Gesù in corpo e spirito, ovvero la coesistenza in Lui delle due nature, l’umana e la divina. Nella Trasfigurazione, inoltre, Antico e Nuovo Testamento si saldano insieme nelle figure di Mosè ed Elia. La memoria si celebra il 6 agosto, a distanza appunto di quaranta giorni dalla festa dell’Esaltazione della Santa Croce, il 14 settembre, ricreando così una successione temporale.
Gesù prende con sé i tre discepoli prediletti, Pietro, Giacomo e Giovanni, e sale su un alto monte. Qui il suo volto diventa splendente come il sole e le vesti candide come la luce. Accanto a Lui appaiono Mosè ed Elia che conversano con Lui. I tre discepoli sono pieni di paura e cadono a terra. Solo Pietro tenta di dire qualcosa, si sente confuso e dice che è bello stare lì e di voler costruire tre capanne per Gesù e i profeti. Una nube scende dall’alto e sembra volerli inghiottire. E ancora dall'alto si ode la voce di Dio che dice: “Questi è il Figlio mio, l'amato: ascoltatelo!”. In un’altra occasione Dio aveva fatto sentire la Sua voce e aveva parlato agli uomini mostrando il Figlio: durante il battesimo di Cristo. In entrambi gli episodi avviene la Rivelazione.
Una rappresentazione immutabile
Nell’arte, la Trasfigurazione sembra simile all’Ascensione e talvolta può indurre in errore. Battesimo, Ascensione e Trasfigurazione sono rappresentazione teofaniche, dal greco ϑεοϕάνεια e ϑεοϕανία, ovvero composto di ϑεο –“teo”, dio, e ϕαν - phan dal verbo ϕαίνομαι – “phainomai”, apparire. Dio si manifesta. Proprio per questa rappresentazione del soprannaturale, dell’indicibile, le immagini rimangono fisse nel tempo. Non ci sono sostanziali mutamenti iconografici, perché vi è la volontà di illustrare in modo esatto le parole così precisamente ripetute dai tre Vangeli sinottici. Non vi sono neppure molte differenze tra arte orientale e arte occidentale, almeno per ciò che riguarda lo schema che descrive un grande triangolo con la figura al centro del Cristo in posizione frontale e assiale, racchiuso nella mandorla, mentre i profeti sono disposti ai lati in modo simmetrico a destra e a sinistra; in basso, lungo una linea orizzontale della radura nel paesaggio roccioso, vi sono gli apostoli. Dal monastero di Santa Caterina sul Sinai, il mirabile mosaico datato al VI secolo, disteso sul catino dell’abside dell’altare per 64 metri quadri, al manoscritto miniato databile tra l’879 e l’882 (Paris, BnF, ms. Grec 510, fol. 75r) e proveniente da Costantinopoli (Istanbul), a quello russo della cattedrale di Pereslav- Zalessky, databile al XV secolo e ora nella galleria Tretyakov di Mosca, tutti mostrano la stessa impostazione.
Gli esempi sono molti: icone greche, orientali o slave che mantengono una sorta di immobilità riscontrabile anche in alcuni esempi di arte moderna, dalle icone di XX secolo austriache, rumene o polacche, fino al mosaico di Rupnik nella chiesa dei santi Giacomo e Giovanni a Milano, realizzato nel 2002. Quest’ultima opera descrive, attraverso la luminosità delle tessere musive e altri materiali, la tradizione dei Padri che nella Trasfigurazione ravvisano quel nodo che permette di comprendere il mistero pasquale del Cristo, nella sua morte e risurrezione.
la rappresentazione simbolica di Ravenna: un unicum
La decorazione a mosaico dell’abside della basilica di Sant’Apollinare in Classe di Ravenna sfugge a questo solito schema con una rappresentazione eccezionale della Trasfigurazione. La forza delle immagini risiede tutta nel simbolo icastico della croce che campeggia nel catino. La figura del Cristo è riassunta nel suo solo volto, in un clipeo dorato al centro dell’intersezione dei due bracci ed è il punto focale dell’intera basilica. La croce è inscritta in un globo azzurro trapunto di novantanove stelle, a sua volta al centro di un cielo d’oro con piccole nuvole rossastre da cui emergono, uno per lato, i busti dei profeti. Poco al di sotto, tre agnelli con il muso rivolto verso il Signore sono gli apostoli Pietro da una parte e Giacomo e Giovanni dall’altra. Questo grande globo sembra sollevarsi sull’orizzonte di un giardino verdeggiante e fertile dove ai lati del santo confessor e intecessor Apollinare pascolano pecore. Iscrizioni in greco completano e spiegano l’intero apparato iconografico.
La mano che scende dal vertice dell'arco è la manus Dei, la mano di Dio che, in modo simbolico, riassume il Padre che fa sentire la sua voce e mostra il Figlio.
Immagini vive
Nel Rinascimento si assiste a quella che alcuni storici dell’arte hanno definito de-iconizzazione o meglio de-teofanizzazione. La rappresentazione del soprannaturale cede il passo a immagini reali, “storiche”, anche nell’iconografia cristiana. Eppure la Trasfigurazione continua ad essere rappresentata. Scegliamo quattro opere fondamentali che, pur non discostandosi dalla classica solita iconografia, sono portatrici di una spinta creativa fortissima, uno spirito nuovo che a noi moderni risulta comprensibile quasi che fossero immagini vive, reali.
Splendore su splendore: la luce purissima del Beato Angelico
La Trasfigurazione del Beato Angelico, nel convento di San Marco a Firenze, affresco datato tra il 1438 e il 1440, appare quasi come una rappresentazione teatrale, un’apparizione di luce. Cristo allarga le braccia prefigurando la croce, vestito di bianco con l'elegante gioco dei panneggi di tunica e mantello che sembrano rimandare alle scanalature delle colonne di marmo classiche. Cristo è colonna portante tra cielo e terra. Poggia i piedi sulla base troncoconica della roccia del monte ed è racchiuso nella mandorla che allude alla massima qualità del significato divino, bianchissima anch’essa. Ai lati, spuntano dal cielo dorato solo le teste dei due profeti, una soluzione dell’artista che riassume così le intere figure, similmente al soldato che sputa addosso al Cristo deriso e le mani volanti che lo percuotono, anche questo affresco nello stesso convento fiorentino e databile agli stessi anni.
Lungo il perimetro della pittura con la Trasfigurazione si dispongono le figure di Maria e san Domenico. In basso, i tre apostoli schermano con le mani la luce insostenibile. Tutta la composizione risponde a calcoli matematici precisi, secondo la “proporzione divina” di ascendenza greco classica, a Fidia, per intenderci: la sezione aurea, per cui la figura di Cristo divide esattamente l'affresco in due metà e l'arco misura un terzo rispetto all'altezza totale dell'opera. E Cristo guarda leggermente verso il basso con uno sguardo dolcissimo, che nulla ha a che fare con quelli terrifici o indifferenti delle teofanie delle divinità pagane.
Allusioni e paesaggi sereni
Pervaso da una serena impronta classica, è la Trasfigurazione del veneziano Giovanni Bellini. L’artista ha dipinto su tavola un primo dipinto, tra il 1455 e il 1460, con uguale soggetto, ora conservato al museo Correr di Venezia. Quest'opera invece, secondo alcune fonti realizzata per la cappella Fioccardo del duomo di Vicenza e portata infine a Napoli con la collezione Farnese nel 1734 da Carlo di Borbone, è più tarda e si può datare con precisione grazie ai cartigli scritti in ebraico tenuti dai profeti, tra i mesi di settembre-ottobre del 1478 o nello stesso periodo dell’anno successivo. La rappresentazione della natura è pervasa da una luminosità tenue, con il paesaggio veneto dello sfondo, le figure composte e rese in modo gentile. Perfino gli occhi abbassati dei profeti, peraltro riscoperti con un recente restauro, imprimono una sommessa dolcezza all’opera, che risente dell’influenza sia del Mantegna sia di Piero della Francesca e aggiunge respiro alla spaziosa prospettiva.
I gesti sono misurati, i volti mai drammatici, e questa morbidezza non viene meno nonostante la staticità e la simmetria delle figure. Anche il monte Tabor appare come una radura muschiata priva di asperità, se non fosse per il taglio della sua sezione che ne disvela le rocce. Dal corrimano in primo piano, si indovina un sentiero che sale ripido. Queste rocce aride e gli anfratti scuri, anche paurosi di questa parte inferiore del dipinto, sembrano presagire quella soluzione dell'iconografia della Trasfigurazione divisa in due parti in cui c'è anche la scena dell'Ossesso che vedremo a partire da Raffaello. Come se ci fosse la volontà di alludere a un mondo opposto a quello d'armonia dove il Signore si trasfigura: un mondo scuro e caotico.
Logos e caos
Celebre è la Trasfigurazione di Raffaello, commissionatagli nel 1483 dal cardinale Giulio de’ Medici per la cattedrale di San Giusto a Narbonne. Fu terminata nel 1520, mentre la fine della sua esistenza lo stava incalzando. Il Vasari, nelle Vite dei più eccellenti pittori, scultori e architettori, pubblicate per la prima volta nel 1550, scrive che “tanto si ristingnesse insieme con la virtù sua, per mostrare lo sforzo et il valor dell’arte nel volto di Cristo, che finitolo come ultima cosa che affare avesse, non tocco più pennelli, sopragiugnendogli la morte”.
E alla sua morte questa tavola fu appesa nella sala dove lavorava e nel vedere insieme il corpo morto del giovane artista e l’opera così viva “faceva scoppiare l’anima di dolore a ognuno che quivi guardava”. Le righe del Vasari lasciano trapelare quanto quest’ultima opera fosse importante negli intendimenti di Raffaello e celebrata già al suo tempo come la sua più importante. Allo stesso tempo sembra fugare ogni dubbio sull'esclusività della sua opera, senza alcun supposto aiuto da parte di Giulio Romano.
Raffaello muta la consueta iconografia per introdurre una novità: prosegue con il racconto dei Vangeli, che subito dopo la discesa del monte Tabor fece incontrare Gesù con un padre che gli chiedeva la guarigione del figlio ossesso. Di nuovo l’episodio si ripete nei Vangeli di Matteo (17, 14-18), Marco (9, 14-27) Luca (9, 37-43a). La grande pala, oggi nella Pinacoteca Vaticana, ma in origine situata in San Pietro in Montorio, è divisa in due parti contrapposte. Nella metà superiore risplende la figura di Cristo, librato a mezz’aria, le braccia leggermente allargate, il volto tutto immerso nel volto del Padre. La mandorla si è dissolta in un bagliore di bianco assoluto, luce purissima. Ai lati si dispongono i due profeti, anch’essi sospesi nel cielo, con i mantelli gonfi di vento. Su un lato, tra gli alberi, due piccole figure di santi di incerta identità e nella parte opposta un paesaggio dall’orizzonte rosato. Gli apostoli sono prostrati su una sorta di radura che delimita un mondo inferiore scuro e denso, nel quale si agitano alcune figure. Questi personaggi delineano una sorta di emiciclo, sono illuminate come da spot di luce cruda. In primo piano e di spalle spicca la figura di donna inginocchiata che ci riporta più di ogni altra a echi michelangioleschi. Sono tutti concitati e tutti indicano con il dito, chi in alto Gesù – gli apostoli che inutilmente avevano cercato di scacciare il demonio - chi il ragazzino, appunto l’ossesso, disarticolato e con gli occhi bianchi voltati all’insù. Braccia che sembrano frecce, che si rincorrono, sembrano voler confrontare l’armonia del divino con il disordine del male, la luce della Rivelazione con il buio di ciò che sfugge alla conoscenza. Il Logos con il caos.
Lo spirito tormentato dell'epoca moderna e la luce che tutto travolge
Ispirata all’opera di Raffello, è la monumentale tela dell’artista fiammingo Pieter Paul Rubens, oggi custodita nel Musée des Beaux-Arts di Nancy. Anche questo artista rappresenta i due diversi episodi dei Vangeli in modo contrapposto, ma con soluzioni pienamente barocche, a cominciare dall’orizzontalità della composizione. La Trasfigurazione appare con una visuale fortemente prospettica, esaltata dai raggi irradianti la figura di Cristo, più in alto e lontana e ci fa apparire la folla dei personaggi in basso sullo stesso piano del nostro sguardo e con figure di dimensioni maggiori. La spinta dinamica è fortemente accentuata, le vesti gonfie di vento, le nuvole dense. I tre apostoli Pietro, Giacomo e Giovanni sono sagome drammatiche. Le pennellate nella scena dell’ossesso sono nervose, i volti fortemente caratterizzati, in alcuni casi caricaturali, e nel buio le figure sembrano quasi ritagliate nella luce che proviene dall’alto e si mescola al turbinio ventoso che scompiglia la chioma di alcuni.
L’opera fu commissionata nel 1604 da Vincenzo I duca di Gonzaga per la chiesa gesuita della Santissima Trinità a Mantova, dove era associata oltre che alla Santissima Trinità adorata dalla famiglia Gonzaga, all’altra immagine teofanica per eccellenza della vita di Cristo, il Battesimo.
Il momento più delicato del Vangelo
David Maria Turoldo scrisse nel 1963, in occasione della seconda domenica di Quaresima, una meditazione sulla Trasfigurazione, poi pubblicata nella raccolta postuma Le stelle in cammino (ed. Dehoniane). Sono righe potenti, in prosa ma dalla forte suggestione poetica, capaci di farci comprendere più a fondo quello che il sacerdote friulano definisce "forse il momento più delicato del Vangelo". Come in uno specchio, queste parole riflettono le immagini delle meravigliose opere d'arte fin qui ripercorse.
La Trasfigurazione
Cristo tentato, le tenebre, notte: oggi è giorno della luce. Le componenti del cosmo.
Il dramma dell’uno e dell’altra (luce-notte) che si cozza nell’uomo. Cristo sintesi di questo dramma. Un corpo che gronda luce. Il punto massimo della storia del mondo è raggiungere questa trasfigurazione.
È una Domenica non solo importante per la sua verità teologica, ma anche perché indica la traiettoria della biologia del mondo.
È il dramma della terra: aspetta di arrivare alla luce per immergersi, per diventare luminosa.
Luce: simbolo misterioso della realtà divina. Il corpo di Cristo è lo strumento dell’esplosione della luce. Oggi è il momento della sua terrestrità. Tutte le cose attendono la rivelazione di questa luce; forse è il momento più delicato del Vangelo.
I cristiani sono invitati a salire la montagna, a trasfigurarsi col Cristo, a immergersi dentro la nube luminosa.
“Prese i discepoli…”.
Gioco sottile tra Dio e le creature: sentirci composti di una componente celeste, ma nello stesso tempo sentiamo il peso della terra che ci trascina. Lasciarsi prendere: ecco l’attuazione della Quaresima interiore. Per questo dobbiamo distaccarci dalle bassure, abbandonare la pianura.
E intraprendere il viaggio dell’ascesa. È sempre in alto che avvengono le cose.
Salire, ma con Lui.
Troveremo una Chiesa che trasuda luce che noi credevamo morta.
In cima col Cristo così gli interlocutori, quelli che rappresentano tutta la storia e tutte le energie messianiche: Mosè – rappresentante della legge, Elia – rappresentante dei profeti.
Da lassù vedremo tutti i misteri della terra che si rivelano. I discepoli vorrebbero rimanere, ma prima devono anche loro trasfigurarsi. Ridiscendono per risalire l’altra montagna del Calvario.
Capito questo, possiamo piantare le nostre tende: abbiamo raggiunto la luce!
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