Ventun pranzi d’amore nelle carceri italiane, “grotte di Betlemme" in anticipo

Nona edizione dell’iniziativa “L’ALTrA Cucina... per un Pranzo d’Amore”, promossa da Prison Fellowship Italia e Rinnovamento nello Spirito Santo, che ha visto 25 chef stellati cucinare per 6mila detenuti e detenute e più di 600 volontari, tra i quali anche vip dello spettacolo e dello sport, servire ai tavoli. Un pranzo di Natale in anticipo per chi non potrà farlo in famiglia. Monsignor Ambarus, ausiliare di Roma: “Qui tutti i giorni le persone hanno bisogno di un'iniezione di fiducia"

Alessandro Di Bussolo – Città del Vaticano

Un piccolo “esercito” di volontari, più di 600 giovani e meno giovani, vip della tv, dello sport, dello spettacolo e dell’arte e gente “normale” a servire ai tavoli per 6mila detenuti e detenute, con 25 chef stellati e le loro brigate a spadellare nelle cucine di 21 carceri italiane. E’ l’onda d’amore che si è vissuta questo 20 dicembre 2022 nelle case di reclusione di tutta la penisola, da Torino a Siracusa, grazie all’iniziativa “L’ALTrA Cucina... per un Pranzo d’Amore”, giunta alla nona edizione, e promossa da Prison Fellowship Italia, Rinnovamento nello Spirito Santo e Fondazione Alleanza del RnS.

In carcere come nella grotta dove è nato Gesù

Dopo i due Natali difficili a causa della pandemia, con sole 3 carceri coinvolte nei pranzi perché 5 hanno dovuto rinunciare all’ultimo causa casi di Covid, quest’anno, sottolinea Salvatore Martinez, presidente di RnS presente al pranzo nella Casa circondariale femminile di Rebibbia a Roma, “abbiamo dovuto dire di no ad altre 4 carceri, perché arrivate troppo tardi”. Ma 21 luoghi di detenzione si sono trasformati oggi “nella grotta di Betlemme - commenta monsignor Benoni Ambarus, vescovo ausiliare della Diocesi di Roma con delega alla carità e alla pastorale di migranti – perché fare il Natale qui dentro è come farlo in una grandissima grotta. Il Bambino nasce nella zona più remota, più nascosta. Se vogliamo anche nella grotta degli animali, che è anche quella più disprezzata. E oggi abbiamo tante grotte viventi che noi, cristiani credenti, dobbiamo scoprire per starci”. Frequentare le carceri, “camminare con i carcerati e le carcerate - spiega monsignor Ambarus - è un modo di dire a loro che esistono, che sono figli”. Iniziative come questa, per il presule di origine rumena, andrebbero fatte quasi tutti i giorni, “perché qui tutti i giorni le persone hanno bisogno di un'iniezione di fiducia e di credere di nuovo in loro stesse”.

Lo chef Filippo La Mantia con due persone detenute in servizio in cucina a Rebibbia
Lo chef Filippo La Mantia con due persone detenute in servizio in cucina a Rebibbia

La Mantia: dal dolore è nata una bellissima cosa  

A Rebibbia, per la nova volta dal 2014, è stata festa per 230 detenute, che hanno potuto gustare i piatti preparati dallo chef palermitano Filippo La Mantia, il primo a proporre l’iniziativa, e che da giovane ha avuto un’esperienza di ingiusta detenzione per sei mesi. Ai giornalisti, prima del pranzo, parla da ex detenuto per “un reato quasi fantascientifico, collusione con la mafia nell’uccisione del vicequestore Cassarà”. Nel 1986, ricorda, “Giovanni Falcone mi ha scarcerato il 24 dicembre. Per sei mesi, da giovane ventiseienne, ho vissuto sofferenza e solitudine. Ho imparato a cucinare in carcere con i pacchi viveri dei miei parenti: eravamo in 14 in cella, e io ho studiato la situazione. Così da un errore giudiziario è nata una bellissima cosa, e dal 25 dicembre del 1986 ho fatto la scelta di occuparmi dei detenuti, organizzavo cene di Natale per fratel Biagio Conte, quando non ero ancora conosciuto come chef”. Poi nel 2014 è stata avviata la prima esperienza de “L’ALTra cucina” e da allora ha fatto 20 pranzi come questo. “Oggi – racconta ancora - con il carcere milanese di Opera sto facendo un progetto di reintegro, alcuni detenuti verranno nel mio ristorante, 'Oste e cuoco’, tra gennaio e marzo: qualcuno potrà lavorare nelle mie cucine. Il carcere a me ha aperto il cervello a 360 gradi, spero succeda anche a loro”.

Dare attenzione a chi non è solo un numero

I piatti cucinati da La Mantia e la sua brigata, ma anche da dieci cuoche detenute, sono portate a tavola da attori in grembiule come Valeria Fabrizi, Maria Grazia Schiavo, Giulia Fiume, Kim Rossi Stuart, Ilaria Spada e Beatrice Fazi, mentre il comico Antonio Giuliani allieta le commensali con le sue battute. Ma serve le detenute di Rebibbia anche la ballerina e presentatrice Lorella Cuccarini che ai giornalisti presenti porta la sua esperienza personale. Ricorda di aver già fatto quest’esperienza a Milano, ed è stata “umanamente molto forte. Prima consideravo il luogo del carcere una cosa lontana da me, è bello che questo sia vissuto a Natale, che è festa di condivisione, dare visibilità e attenzione a persone che altrimenti sarebbero solo numeri. E’ una bella esperienza per accendere un faro sulla realtà delle carceri, ma è anche un esperienza che fa crescere noi che entriamo in carcere: quanta umanità c’è dietro la storia di una detenuta. Dovremmo tutti impegnarci a far si che le carceri diventino davvero luoghi di riconciliazione e possano garantire un reintegro nella società civile. Mi auguro che tanti colleghi del mondo dello spettacolo di uniscano a noi…”

Un momento della conferenza stampa a Rebibbia
Un momento della conferenza stampa a Rebibbia

Un'iniziativa che va avanti grazie alla generosità di tanti

Dal carcere di Opera di Milano, prima del pranzo, si collega online Marcella Reni, presidente di Prison Fellowship Italia, che ricorda come lì pranzano insieme i detenuti e le loro famiglie, “vediamo le mogli e i figli attaccati alle braccia dei padri. Il loro interesse non è nei piatti gourmet ma nell’abbraccio di mogli e figli. Gli anni scorsi ho visto mogli che imboccano i mariti che avevano le mani impegnate”. Elogia le centinaia e centinaia di uomini e donne “generosissimi che stanno spadellando, questa è solo la ciliegina sulla torta di un anno di impegno, un anno segnato dalla pandemia”. Cita lo chef Domenico Iavarone a Napoli, che nel carcere di Secondigliano era pronto a cucinare per 900 persone, “ma ora sono state ridotte, e per gli altri riprenderemo l’esperienza durante l’anno”. Ricorda il “Progetto Sicomoro”, che fa incontrare nelle carceri detenuti e vittime di reato per un processo di riparazione. E, sottolinea, “ora abbiamo anche il progetto ‘Genitori dentro e fuori’, si rieducano i padri e le madri ad un corretto rapporto di genitorialità. Portiamo i figli dei detenuti in vacanza, e in questi campi spesso facciamo venire anche i figli delle vittime. Abbiamo bisogno però di volontari”.

Martinez: dobbiamo diventare capaci di misericordia

Salvatore Martinez, prima di iniziare la convivialità del pranzo con le detenute, ricorda ancora il dramma della pandemia, che in un certo senso ci ha accomunato ai detenuto, senza libertà e senza contatti con gli altri. “E proprio quando siamo isolati che abbiamo più bisogno d’amore. Il numero dei suicidi fuori e anche dentro - afferma Martinez - sono aumentati. E anche il numero dei detenuti. Bisogna capire le ragioni. Ed è drammatico il tema della recidiva, quindi il carcere non redime. Senza amore si muore! Oggi diventeremo la famiglia per queste detenute, che non possono pranzare con i loro familiari. Se un'altra cucina è possibile, è possibile anche un altro modo di fare solidarietà. Tra i volontari moltissimi sono giovani, che danno credito alla speranza”. I cristiani, conclude Martinez,  conoscono una speranza che non delude, che per il detenuto e un modo di ricostruire la propria vita. “Ma noi non entriamo nelle carceri solo a Natale. Le nostre società stanno perdendo la capacità di essere misericordiose, i giovani devono rinunciare a questa cultura dello scarto e dell’indifferenza, perché non si sta a tavola con i nemici o con gli estranei”.

Monsignor Benoni Ambarus (a sinistra) con don Michele Arcangelo Leone, consigliere spirituale nazionale di RnS
Monsignor Benoni Ambarus (a sinistra) con don Michele Arcangelo Leone, consigliere spirituale nazionale di RnS

Ambarus: si può fare di più per il loro reinserimento

Mentre i volontari iniziavano a servire a tavola, abbiamo incontrato monsignor Benoni Ambarus, vescovo ausiliare della Diocesi di Roma con delega alla carità e alla pastorale di migranti. Ecco la sua intervista:

Ascolta l'intervista a monsignor Benoni Ambarus

Quanto sono importanti le parole del Papa a gennaio, per ricordare “i fratelli e sorelle che sono in carcere”, ma anche adesso questo suo appello ai capi di Stato per un gesto di clemenza in vista del Natale per chi vive nelle carceri e spera di poter ricominciare?

Chi va giù in maniera radicale con l’accetta a punire e segregare le persone che hanno sbagliato non ha ancora fatto i conti con la fragilità umana e quindi il Papa non sta facendo altro che ricordarci che gli esseri umani hanno la loro fragilità e proprio per questo la loro bellezza. Dopodiché frequentare le carceri, stare qui, affiancare e camminare con i carcerati e le carcerate, è un modo di dire a loro che esistono, che sono figli, che il Natale, qui dentro, è come in una grandissima grotta di Betlemme dove nasce il Bambino. Perché il Bambino nasce nella grotta, nella zona più remota, più nascosta se vogliamo anche la grotta degli animali è anche quella più disprezzata e oggi abbiamo tante grotte viventi che noi, cristiani credenti, dobbiamo scoprire per starci.

 

E per loro, le detenute, quando riescono ad uscire, c'è speranza di poter ricominciare qui a Roma? Anche la Diocesi le aiuta a reinserirsi?

Ecco, se mentre stanno qui dentro alcune cose si possono fare, e magari altre no, quando escono fuori, non solo si possono, ma si devono fare tante cose sulle quali c'è un ampissimo margine ancora di crescita. Come Chiesa, tutte le associazioni, tutte le realtà, tutte le organizzazioni stanno facendo tanto, ma lo spazio per fare meglio e fare di più è veramente enorme perché lo stigma che si portano fuori a volte è una specie di sigillo che chiude le porte mentre noi dobbiamo fare sempre di più, dobbiamo rompere questi sigilli dello stigma sociale.

Ha qualche storia bella da raccontare, di persone detenute che ce l'hanno fatta e che ha conosciuto nella sua esperienza di direttore della Caritas di Roma?

Personalmente ho incontrato tante persone che hanno vissuto questo percorso con la giustizia. Uno in modo particolare mi è capitato di incontrare qualche mese fa, che ha vissuto un po' di anni in carcere. Poi uscendo si è barcamenato per un bel po' di tempo, stava cominciando a camminare, poi è arrivata la pandemia e ha perso tutto, tutto il lavoro, perché ovviamente lavorava in nero ed è venuto a chiederci aiuto, e noi l'abbiamo sostenuto, aiutato. Poi quando ha ripreso il lavoro si è presentato un giorno con una busta contenente 250 euro, dicendo: “Guarda, io ho ripreso, ho ricominciato e volevo darti questo”. Io gli ho detto: “Ma tienili per te, usali per andare avanti”. No, mi ha risposto, “voglio sentire che anch'io non solo posso ma devo fare costantemente qualcosa per aiutare gli altri, perché io ho ricevuto tanto”. Ecco a quella busta, per quello che mi riguarda, nel suo valore simbolico, aggiungerei almeno tre zeri in più alla somma che lui ha messo. Perché è il cuore che dice il valore di quello che facciamo, non è il valore monetario in sé. Ecco, questo noi forse dobbiamo imparare sempre di più: che il cuore deve essere pronto e allora le cose si fanno, come direbbe Shakespeare, mentre se non è pronto il cuore, duriamo poco nelle nostre azioni.

Iniziative come queste, a Natale sono importanti soprattutto per chi non potrà stare con la sua famiglia e trova qui una famiglia, anche nei volontari che servono ai tavoli...

A me piacerebbe fare questo evento proprio la notte di Natale, perché è come andare alla grotta di Gesù a dire siamo venuti a trovarti, ma siccome non è possibile, allora viene anticipato. Però iniziative come questa dovremmo farne praticamente quasi tutti i giorni, perché tutti i giorni le persone hanno bisogno di un'iniezione di fiducia e di credere di nuovo in loro stesse.

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Il Pranzo d'Amore 2022 nel carcere romano di Rebibbia
20 dicembre 2022, 18:42