Belgrado, il nuovo arcivescovo Nemet: i cattolici sono “a casa” in Serbia
Alessandro Di Bussolo – Città del Vaticano
I cattolici che a Belgrado e in tutta la Serbia vogliono “sentirsi a casa” hanno un nuovo arcivescovo: Ladislav Nemet, già vescovo di Zrenjamin e presidente della Conferenza episcopale internazionale “Santi Cirillo e Metodio” (Serbia, Montenegro, Kosovo e Macedona del Nord), da un anno anche vicepresidente del Consiglio delle conferenze episcopali d’Europa (Ccee). Sessantasei anni, missionario verbita, nato ad Odžaci, nella regione serba di Bac, da una famiglia ungherese, Nemet ha fatto il suo ingresso solenne nell’arcidiocesi sabato 10 dicembre, con una Messa nella cattedrale dell’Assunzione della Beata Vergine Maria.
Nemet: i cattolici e il contribuito alla società della Serbia
Nel suo discorso davanti a rappresentanti di tutte le Chiese dei Balcani, dei Paesi Baltici e della Polonia, e del patriarca della Chiesa ortodossa serba Porfirije, Nemet ha spiegato che “la Chiesa cattolica si adopererà per lasciare il suo contributo alla nostra società in collaborazione con le altre confessioni e le autorità statali”. E in visita ai Media vaticani, in questi giorni di incontri delle Ccee, sottolinea la sua speranza di aiutare i cattolici della capitale serba a sentirsi “a casa in questa grande e viva città”, dando loro una mano per affrontare “la difficile vita quotidiana”.
Porfirije: un uomo della nostra terra, la condivide con noi
La Chiesa cattolica in Serbia, ribadisce il nuovo arcivescovo di Belgrado, è oggi “una Chiesa indipendente, parte della società serba, dove noi possiamo trovare il nostro posto”. I cattolici sono una minoranza, il 5% degli abitanti, ma la loro Chiesa non è più legata a doppio filo con quella di Croazia, come era fino agli anni ’90 del secolo scorso. Il patriarca Porfirije, che all’intronizzazione di Nemet ha guidato una numerosa delegazione della Chiesa ortodossa serba, nel suo saluto lo ha chiamato “uomo di questa terra, figlio del nostro popolo, nato e cresciuto nella regione di Bac dove sono nato e cresciuto anche io” che saprà “condividere sia il bene che il male insieme a tutti gli abitanti di questa terra”.
"Dare una mano nella difficile vita quotidiana"
Secondo il patriarca serbo, “insieme con le altre Chiese e comunità religiose faremo tutto ciò che è buono non solo per noi individualmente, ma per ogni persona secondo le semplici parole e il principio di Cristo: ‘Quello che vuoi che le persone facciano a te, fallo anche tu a loro’”. “Non affidiamoci a noi stessi e alle nostre forze – ha concluso – ma piuttosto alla forza e all’amore di Dio per testimoniare la parola di Cristo e il Vangelo”. Ecco l'ampia intervista che l’arcivescovo Ladislav Nemet ha concesso a Vatican News, nella quale parla anche della tensione tra Serbia e Kosovo, del dramma dei migranti della Rotta balcanica e annuncia che dal 4 al 7 novembre 2023 Belgrado ospiterà il prossimo incontro delle presidenze della Ccee e della Kek, la Conferenza ecumenica delle Chiese d’Europa.
Quale città, quale Belgrado capitale e quale diocesi ha trovato al suo ingresso sabato? Quali, speranze, sogni, problemi e paure?
Belgrado è una città grande, più di un milione e seicentomila abitanti, una città che cresce, che attira molti abitanti della Serbia, che cercano un posto di lavoro, investimenti e altre possibilità che non ci sono in provincia. Come capitale accoglie in sè diverse culture, diversi modi di vivere, che non sono presenti dappertutto in un Paese come la Serbia. Belgrado è insomma un’isola speciale, dove tutto è diverso, dove si guadagna di più e molte cose costano anche di più. In questa comunità vivono i cattolici: siamo una minoranza, una diaspora, e io spero di lavorare con questi cristiani e dare anche loro una mano per la vita quotidiana. Che è una vita fatta spesso di lotta per sopravvivere, perché sappiamo che a causa della guerra in Ucraina, e non solo perché da noi sono altre tensioni, la vita non è sempre così facile. E in questa vita così turbolenta ci vuole veramente un fondamento sicuro. Spero che la Chiesa potrà dare questo fondamento. Così la mia speranza a Belgrado è di incontrare questi cattolici, di lavorare con loro, di aiutarci insieme, mano nella mano, per sentirci “a casa” in questa grande e viva città.
Alla cerimonia per la sua intronizzazione come arcivescovo, sabato 10 dicembre, era presente anche il patriarca della Chiesa ortodossa serba Porfirije. Questo è un segnale positivo e non scontato. Cosa si augura per il futuro dei rapporti con i fratelli ortodossi del suo Paese?
Noi abbiamo alcuni temi comuni non solo come cristiani, ma anche come attori della vita comunitaria e anche scolastica. Dal 2001 nelle scuole dell’obbligo in Serbia, c'è anche la religione come materia. Ma da alcuni anni, più o meno da 5, sempre di più sentiamo la pressione da parte del Governo e anche di altri attori della vita sociale e pubblica, che in qualche maniera mettono in pericolo questo insegnamento religioso. E insieme con il patriarca e tutte le altre Chiese tradizionali, sono cinque i gruppi religiosi riconosciuti dalla legge in Serbia, cerchiamo veramente di evitare questo rischio. Il secondo tema molto importante è il riconoscimento dell’esistenza delle istituzioni ecclesiali, perché molte cose non sono ancora regolate dallo Stato. Perciò cerchiamo anche sicurezze per i preti: dal 2018 abbiamo almeno l'assicurazione, ma adesso abbiamo bisogno ancora di altri passi per arrivare ad una sicurezza ancora più grande per tutti i preti, religiosi e religiose. Sul piano della collaborazione tra le Chiese, del dialogo ecumenico, ci sono sempre possibilità di arrivare ad una fratellanza più grande. In questo momento non ci sono tensioni, su questo piano, e spero che possiamo, con il patriarca Porfirije, continuare così e se Dio vuole anche migliorare.
C’è la speranza di poter fare della Serbia, e delle sue due Chiese cristiane principali, un luogo di ospitalità di futuri incontri per il dialogo tra le Chiese cristiane orientali di tutte le confessioni e quelle occidentali. Che sono i due polmoni dell'Europa, come diceva san Giovanni Paolo II?
Io penso che ci sono segni positivi, in questa direzione. Però per arrivare davvero a respirare con due polmoni, mi sembra che ci vuole ancora molto più lavoro. Nel senso di parlare con tutte le Chiese cristiane in Europa, dell'Occidente e dell’Oriente, cercare innanzitutto un’amicizia e poi un confronto su temi teologici. Posso annunciare che la Ccee (Consiglio delle conferenze episcopali europee, cattolico) e la Kek (Conferenza delle Chiese europee, ecumenica) hanno deciso che il prossimo incontro delle presidenze si terrà a Belgrado (dal 4 al 7 novembre 2023, ndr). L’ho già comunicato al Patriarca che era molto interessato, anche per poter salutare i partecipanti. Così vedo che si fanno passi avanti, però sono passi piccoli. Ma se pensiamo che per quasi mille anni non abbiamo neanche parlato tra di noi, mentre negli ultimi cinquant'anni, dal Concilio Vaticano II, ci sono stati veramente movimenti grandissimi e abbiamo veramente fatto molte cose positive. Però la natura umana è capace di distruggere tutto in un giorno, e poi ci vogliono cinquecento anni per rifare qualcosa. Io sono ottimista che possiamo fare qualcosa, però i risultati concreti quando ci saranno? Non sono un profeta…
Il suo Paese sta vivendo momenti di forte tensione con il vicino Kosovo. Lei è presidente della Conferenza Episcopale dei Santi Cirillo e Metodio, che unisce i due Paesi insieme al Montenegro e alla Macedonia del Nord. Cosa possono fare le Chiese cattoliche dei due Paesi, piccoli greggi di minoranza, per portare la riconciliazione tra le due comunità?
Un esempio positivo è quello che è accaduto per il mio ingresso in Diocesi, sabato 10 dicembre. In cattedrale erano presenti i vescovi dell'Albania, del Kosovo, della Macedonia del Nord e anche dei Paesi baltici, cominciando dalla Lituania, e fino alla Polonia. Abbiamo dato una bellissima testimonianza che si può pregare insieme, che siamo membri della stessa Chiesa. Non ci sono problemi tra la gente, quelli cominciano a livello politico e degli interessi economici. Ci sono tantissimi interessi economici e non solo economici, per cui arrivare ad una riconciliazione non è soltanto un compito della preghiera e delle Chiese, ma anche delle “teste dure”, di chi guadagna moltissimo a causa di queste tensioni. Noi facciamo del nostro meglio: ci visitiamo a vicenda, facciamo conferenze in diversi Paesi e vediamo che la gente ci accetta dappertutto, e sempre in pace, amicizia. Questa è la cosa più importante.
Un altro elemento di crisi nei Balcani è legato al fenomeno migratorio. Con l’inverno si aggravano le condizioni di freddo e neve con le quali i migranti asiatici percorrono la tristemente nota rotta balcanica. Lei ha avuto più volte parole dure riguardo ai Paesi dell'Europa del Nord che, il nome della difesa della propria identità chiudono le porte ai rifugiati. Cosa chiedono ora i vescovi di Serbia e di tutta l'Europa ai loro governanti?
Noi chiediamo un'attenzione più grande, non solo a parole, ma con aiuti concreti. Con l’inverno, che nei nostri Paesi balcanici è più duro che qui a Roma, molti rifugiati cercano luoghi per sopravvivere. Sappiamo che le frontiere sono sempre più chiuse e perciò in Serbia ci sono in questo momento circa 7 mila migranti. Questo numero è stabile: non significa che non vengono nuovi migranti, ma che molti riescono ad uscire dalla Serbia e attraversare la frontiera di Schengen o dell’Unione Europea e si trovano in qualche altro Paese già adesso. Questo è fonte di ricchezza per i trafficanti di esseri umani, dei rifugiati. Il governo potrebbe realizzare in Serbia luoghi più adatti per l’accoglienza di questi rifugiati. Noi vescovi europei con il governo serbo e i governi tedesco e austriaco, abbiamo, attraverso la Caritas, organizzato centri di accoglienza dove diamo ai migranti la possibilità di rimanere alcuni giorni o mesi, come vogliono. I gesuiti attraverso il loro Jesuit Refugee Service organizzano centri per i bambini e le donne che viaggiano da sole, così cerchiamo di fare tutto il possibile. Moltissime di queste persone migranti hanno paura di farsi vedere, perché temono che la polizia li arresti. Ma in Serbia, devo dire, il Governo è abbastanza tollerante, e non li rimanda in Bulgaria o Macedonia del Nord, Albania o in altri Paesi, ma lascia restare tutti i rifugiati nei nostri confini.
Quello dei migranti è un problema dell’Unione Europea, ma la Serbia non è ancora nell’Unione. L'ingresso futuro e sperato in Europa potrebbe essere la vera svolta per il suo Paese? Come superare le titubanze dell'Unione?
Sono titubanze che sono ben note anche da noi. Il problema è che questo prolungamento del processo di accoglienza per la Serbia ha portato pessimismo verso l'unità europea. Sempre più gente non cerca la vicinanza, in senso politico, con Bruxelles. Perché se qualcuno vuole lasciare la Serbia per trovare lavoro, non va Mosca, va a Bruxelles. Però quando sono intervistati per strada, alla domanda: “Vorresti stare con l'Unione Europea” adesso dice di sì meno del 50 per cento. Mentre quando sono arrivato come vescovo in Serbia, nel 2008, il 70 per cento era per la unità. Sono cambiate un po' di cose, c’è la guerra in Ucraina, e il sentimento slavo in Serbia è più in sintonia con Mosca. Questo accade già da 200 anni, non è qualcosa di nuovo, e anche la Cina è arrivata con tantissimi soldi e progetti, così che la gente ha l'impressione che si può vivere anche senza Bruxelles. Ma secondo me un po’ pericoloso, perché la Serbia appartiene alla casa europea.
Come piccola comunità cattolica, sentite questa missione di essere seme di fraternità e riconciliazione, in Serbia, oppure sentire il più forte il rischio di discriminazione, in quanto minoranza?
Io direi che viviamo in un processo molto dinamico. I cattolici in Serbia si trovano in questa situazione soltanto dal 2006, quando si sono separati la Serbia e il Montenegro. Dal 2006, siamo in un paese che è totalmente fatto con frontiere non soltanto geografiche, ma anche culturali. E in questa nuova cultura, dobbiamo trovare il nostro posto. In Jugoslavia e anche per molti anni dopo la fine della Federazione, la situazione dei cattolici era in qualche maniera collegata con i cattolici in Croazia. Adesso attraverso questo nuovo processo di identificazione, noi cominciamo di parlare sempre di più della Chiesa cattolica in Serbia. Una Chiesa indipendente, parte della società serba, dove noi possiamo trovare il nostro posto. E questa Chiesa cattolica in Serbia, che è anche il nostro nome secondo la legge sulla religione è una mescolanza di culture. Il 70% dei cattolici sono di lingua ungherese, il 25% sono croati e 5 per cento di tutte le altre nazioni. Così vediamo che il profilo di questa Chiesa oggi è differente da quella che era fino agli anni ’90 e al 2000, alcuni problemi in questo modo spariscono. Sappiamo che le difficoltà per una riconciliazione sono sempre fra croati e serbi. Noi oggi siamo parte di questa situazione, ma non siamo più gli attori principali.
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