Roncalli: la “Pacem in terris”, un testo radicato nel Vangelo
di Marco Roncalli
«Ho poi consacrato tutto il Vespero, circa tre ore nella lettura della enciclica di Pasqua in preparazione, fattami da mgr. Pavan: “La pace fra gli uomini nell’ordine stabilito da Dio e cioè: nella verità, nella giustizia, nell’amore, nella libertà”. Manoscritto di 111 pagine dattilografate. Ho letto tutto, solo, con calma e minutissimamente: e lo trovo lavoro assai bene congegnato e ben fatto. L’ultima parte poi: “Richiami Pastorali” in pienissima risonanza col mio spirito. Comincio a pregare per la efficacia di questo documento, che spero uscirà a Pasqua e sarà motivo di grande edificazione». Così Giovanni XXIII - già gravemente malato - scriveva il 7 gennaio ‘63, affidando al diario un auspicio realizzatosi solo in parte. Sì, perché se l’enciclica poi intitolata «Pacem in terris» e indirizzata per la prima volta anche «a tutti gli uomini di buona volontà», venne promulgata nei tempi desiderati, l’11 aprile successivo, giovedì santo – e persino firmata due giorni prima davanti alle telecamere- sessant’anni dopo deve essere ancora recepita nelle sue ferme indicazioni. Quelle delineanti il disegno di un nuovo ordine mondiale fondato sui «valori di verità, giustizia, solidarietà e libertà», e di una pace «anelito profondo degli esseri umani di tutti i tempi», immaginata non solo come assenza di guerra, bensì come traguardo di un processo educativo, spirituale, politico, economico. Infatti non solo si continua a «far fare» guerre, e non cessano le violazioni di diritti elementari e della dignità umana, termine ricorrente più di trenta volte nell'enciclica. Non solo vengono ignorati gli appelli a diffondere una cultura della nonviolenza che invece – ricorda Papa Francesco – “praticata con decisione e coerenza ha prodotto risultati impressionanti”, ma si rivelano carta straccia pure accordi e patti sottoscritti formalmente da non pochi governi. Insomma: una enciclica viva e incompiuta. Restando di fatto disatteso quell’impegno permanente per la pace e per quel bene comune che «costituisce la stessa ragione di essere dei poteri pubblici», raccomandato in quello che è l’ultimo dono di un grande seminatore di pace, con tante esperienze vissute tra Oriente e Occidente, anche come testimone dei due conflitti mondiali del ‘900.
«Pacem in Terris» era germinata già durante la crisi dei missili di Cuba, quando l’ottobre ’62 aveva visto papa Roncalli –nei giorni in cui si apriva il Concilio- protagonista di un appello per la pace accolto da Kennedy e Kruscev in un mondo sull’orlo di una guerra nucleare. A immaginare un testo per dare forma a quell’impegno, sin dal novembre ’62, Pietro Pavan, un sacerdote esperto di dottrina sociale della Chiesa che tanta parte ebbe nella stesura circolata dal gennaio successivo fra gli esperti, e rimasta quasi invariata nella sua forza profetica se non in alcuni punti allora rimossi (ad esempio l’obiezione di coscienza), ma ripristinati di lì a poco dalla forza di alcuni profeti e dell’impegno di piccole comunità. In ogni caso, punto principale dell’enciclica quello in cui si ritiene irrazionale («alienum a ratione») - dopo l’avvento del nucleare- la stessa idea di risolvere le controversie col ricorso alle armi. Non senza indicare prospettive concernenti la costruzione della pace, e di un «disarmo integrale» che investe «anche gli spiriti». E se a lungo la Chiesa aveva insegnato che la guerra era ammessa come legittima difesa, ecco «Pacem in Terris» affermare che lo squilibrio fra mezzi a disposizione (armi atomiche) e finalità (ripristino di diritti violati) rende impossibile continuare su questa linea. Insomma: senza farne il nome: basta con la «guerra giusta». E - questo - detto con parole aderenti al Vangelo, fiduciose nei percorsi attenti alla promozione dei diritti umani, al riparo dagli urti delle ideologie responsabili della cultura dello scarto con le forme più diverse di sfruttamento ed emarginazione.
Ma non è tutto. Perché «Pacem in Terris» resta pure l’enciclica che invita a «mai confondere l’errore con l’errante»; a riconoscere «gli incontri e le intese, nei vari settori dell’ordine temporale, fra credenti e quanti non credono» quale occasione «per scoprire la verità e renderle omaggio». E che dichiara «non si possono neppure identificare false dottrine filosofiche sulla natura, l’origine e il destino dell’universo e dell’uomo, con movimenti storici a finalità economiche, sociali, culturali e politiche». Pur se originati o ispirati da esse destinate a restare sempre le stesse, i movimenti – continua l’enciclica che riconcilia Chiesa e democrazia, dottrina sociale e diritti umani- «non possono non andare soggetti a mutamenti anche profondi». Leit motiv che attraversa in filigrana tutto il testo rimane, a ben vedere, l’invito a prendere atto dei «segni dei tempi», i modi nei quali la Storia muove pagine di Vangelo. Scrutarli, interrogarsi sul loro significato, non è responsabilità solo del Papa, ma di ogni donna o uomo di buona volontà chiamato a dare il suo contributo per far cessare le carneficine in corso, e, da qui in poi, anche a tenere sempre aperti quei canali dove - fra realismo e utopia- trova spazio la speranza. E dove volere la pace non può essere solo non volere la guerra.
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