Suor Nelly León: “Nelle carceri si riproducono i conflitti delle periferie”
Felipe Herrera-Espaliat - Città del Vaticano
La violenta morte di 46 donne in un carcere dell'Honduras lo scorso martedì ha causato profondo dolore non sono alle loro famiglie, ma anche a Papa Francesco, che ha pregato per loro nell’Angelus domenicale. Alla stessa ora, anche le detenute del centro penitenziario femminile di Santiago del Cile hanno pregato per il loro riposo eterno. In un gesto di solidarietà, hanno acceso 46 candele nella loro cappella e hanno interceduto per le tante donne che, in Honduras, in Cile e nel resto dell’America Latina, muoiono come conseguenza della violenza nelle carceri o poco dopo esserne uscite.
La preghiera è stata presieduta da suor Nelly León, religiosa del Buon Pastore e nota leader della pastorale carceraria femminile nel continente. Nei suoi oltre trent’anni da consacrata, ha visto la mancanza di dignità di cui sono vittime le donne private della libertà. È quanto ha spiegato a Papa Francesco durante la sua visita a quel carcere in Cile nel 2018, e oggi torna ad alzare la voce chiedendo un sistema penitenziario che consideri l’essenza femminile al momento di costruire centri di detenzione e che venga applicata la giustizia.
Qual è la situazione dei centri di detenzione femminili in America Latina?
In generale, sono in uno stato molto precario, al punto da far sentire che la pena, oltre alla privazione della libertà, è vivere in condizioni disumane. Tra l’altro, le carceri femminili sono state pensate per gli uomini e solo dopo sono state adattate alle donne. Non conosco centri di detenzione concepiti pensando alle donne.
Quali sono i diritti delle donne lesi viste le condizioni carcerarie? Che cosa accade a quelle incinte?
La prima violazione avviene nei tribunali, perché non guardano alle persone individualmente, ma come parte di un collettivo, senza vedere le loro storie di emarginazione, dove si trovano solitamente le cause del loro comportamento errato. Poi raramente si discerne dove ogni donna si potrebbe riabilitare meglio e non danneggiarsi di più. Inoltre la privazione della libertà implica una perdita totale di autonomia, perché dentro il carcere bisogna chiedere il permesso per tutto, e qualsiasi errore viene associato a una pena. Non c’è spazio per commettere errori.
Riguardo alle donne incinte, il Cile ha aderito alla Convenzione sui Diritti dell’Infanzia, e per questo i bambini e le loro madri stanno in luoghi protetti, ma sempre all’interno del carcere. Stiamo tuttavia promuovendo una legge che consenta che una donna con un bambino piccolo non sconti la sua pena in un centro di detenzione. Purtroppo vediamo qui come la prima parola che un bambino impara non è mamma o papà, ma “cabo”, che è il nome delle guardie carcerarie.
Quali fattori intervengono perché avvenga una tragedia come quella dell’Honduras?
Purtroppo nelle carceri si riproducono i conflitti delle periferie delle grandi città. Quando i membri delle bande rivali di quartieri emarginati vengono mandati in prigione, lì si riorganizzano e agiscono in modo violento, e i sistemi penitenziari non sono in grado di controllare tutto questo. Così iniziano a nascere ostilità, scontri tra le bande, e accadono quelle risse che, come abbiamo visto in Honduras, sfuggono a ogni controllo. Se non c’è segmentazione della popolazione carceraria, non si riesce a isolare quelle bande, e così accadono queste grandi tragedie.
Che cosa occorre fare per umanizzare i centri penitenziari femminili?
Bisogna passare da una giustizia punitiva a una giustizia riparativa, che miri alla riabilitazione della persona. Inoltre i centri penitenziari devono essere più accoglienti, con spazi dignitosi per una convivenza fraterna. Noi donne abbiamo un modo d’essere, di pensare e di sentire diverso da quello degli uomini, e abbiamo bisogni diversi, che spesso non vengono soddisfatti. Oltre a ciò, è necessario che le detenute possano avere accesso a un accompagnamento pastorale, perché guardino nel proprio cuore e possano capire che cosa è successo nella loro vita che le ha portate a finire in carcere, e da lì incominciare a rialzarsi.
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