Don Bernardi e don Ghibaudo martiri a Boves, dalla loro testimonianza frutti di pace
Tiziana Campisi – Città del Vaticano
Era il 1943. Nello scenario della Seconda Guerra mondiale, i tedeschi avevano preso il controllo di diversi territori dell’Italia centrale e settentrionale e la cittadina di Boves, in provincia di Cuneo, era diventata un punto di concentrazione di forze tedesche che cercavano di bloccare la fuga dei militari italiani - molti dei quali si nascondevano con i partigiani in montagna - lasciati senza alcuna istruzione dal governo Badoglio dopo la firma dell’armistizio con gli angloamericani. In seguito a uno scontro a fuoco fra militari tedeschi e resistenza italiana, finito con un morto da entrambe le parti e la cattura di due soldati delle SS, arrivano rinforzi tedeschi, a comandarli è il maggiore Joseph Peiper. Questi minaccia la distruzione di Boves se non avesse ottenuto la liberazione dei prigionieri e la restituzione della salma del mitragliere ucciso e convoca come intermediari il parroco, don Giuseppe Bernardi, e un residente locale, l’imprenditore Antonio Vassallo. È il 19 settembre. Dopo una lunga trattativa con i due, i partigiani riconsegnano gli ostaggi e il corpo del tedesco ucciso, ma, portato a termine l’incarico, don Giuseppe e Vassallo vengono fatti salire su un’autoblindo, condotti in un luogo isolato e assassinati. I loro corpi vengono dati alle fiamme e Boves viene incendiata. Bruciano circa 350 case e vengono uccise altre 23 persone, tra cui anche il giovane viceparroco, don Mario Ghibaudo, di appena 23 anni, freddato, mentre aiutava anziani e bambini a fuggire, nell’intento di dare l'assoluzione a un uomo in punto di morte colpito da un tedesco.
Martiri nello svolgimento del loro ministero
L’evento è noto alla storia come eccidio di Boves. Di quel tragico 19 settembre 1943, oltre a dolorosi ricordi, sono rimaste le testimonianze di don Giuseppe Bernardi e don Mario Ghibaudo, che, pur consapevoli dei pericoli cui andavano incontro, hanno continuato a svolgere il loro ministero, donando la vita nel tentativo di salvare i cittadini di Boves. I due sacerdoti sono stati riconosciuti martiri e sono stati beatificati il 16 ottobre dello scorso anno dal cardinale Marcello Semeraro, prefetto del Dicastero delle Cause dei Santi. Don Giuseppe, umile, di carattere buono e riservato, fu molto amato dalla gente, per l’impegno pastorale, il profondo senso di paternità e la grande sensibilità verso i poveri e i malati. Don Mario era stato ordinato sacerdote tre mesi prima. Quel terribile giorno in cui perse la vita non si risparmiò un solo istante: per le strade, dove oramai dilagavano confusione e violenza, donava a tutti la benedizione e domandava se qualcuno desiderasse l’assoluzione dei peccati, e proprio mentre stava benedicendo un moribondo venne colpito da una raffica di mitra
I frutti della testimonianza dei due sacerdoti
A Boves la memoria di don Giuseppe e di don Mario è ancora viva. I loro resti mortali si trovano nella parrocchia di San Bartolomeo. Da anni, inoltre, vengono coltivate relazioni di amicizia con la città di Schondorf, centro della Baviera dove è sepolto Joachim Peiper, il comandante tedesco che ordinò la strage del 19 settembre 1943. Proprio nel maggio di quest’anno una delegazione della comunità di Boves ha portato le reliquie dei due beati in Germania, che sono state collocate in un altare nella chiesa di Sant’Anna all’interno del cimitero in cui si trova la tomba del comandante Peiper.
Sono diverse le iniziative che ricordano i due sacerdoti, spiega a Vatican News il parroco della parrocchia di San Bartolomeo, don Bruno Mondino, che è stato anche postulatore della fase diocesana della causa di beatificazione. L’Associazione don Bernardi e don Ghibaudo ha anche istituito un premio intitolato ai due sacerdoti e ad Antonio Vassallo che sarà conferito in autunno. Il riconoscimento vuole far conoscere persone, gruppi, comunità o organismi che lavorano sui sentieri della pace, del perdono, della riconciliazione, della ricostruzione sotto il segno della solidarietà, della fraternità, della giustizia e del bene comune.
Don Giuseppe Bernardi e don Mario Ghibaudo che cosa ci insegnano oggi?
La prima cosa che ci insegnano è che è importante stare al nostro posto. Loro hanno avuto il coraggio di non scappare, di stare al proprio posto nel momento in cui sapevano che il dramma stava arrivando. Dal percorso che abbiamo fatto riscoprendo queste figure, sono emersi alcuni insegnamenti che sono come dei piccoli semi che loro hanno sparso e che stanno fiorendo. Il primo seme è quello della riconciliazione. È un seme che ha gettato don Bernardi quando era ostaggio del commando tedesco: è andato a benedire la salma del giovane mitragliere ucciso nello scontro a fuoco che c'era stato la mattina del 19 settembre 1943 tra i partigiani e le truppe tedesche. Da quel gesto abbiamo imparato che dobbiamo costruire dei ponti, andare oltre quello che è successo. Per questo abbiamo cercato i contatti con la comunità tedesca di Schondorf, dove è sepolto Peiper, il comandante che ha ordinato di distruggere Boves, e con questa comunità abbiamo cercato di costruire un ponte.
È un ponte semplice, di fraternità. Quando abbiamo fatto la traslazione delle salme dei due preti nella chiesa di San Bartolomeo c'erano anche due persone di Schondorf che portavano le spoglie di don Giuseppe e quando c'è stata la beatificazione il loro coro parrocchiale - ottanta persone - è venuto a cantare alla celebrazione. Quindi è un ponte che ha coinvolto anche le comunità civili. I due comuni di Boves e di Schondorf hanno firmato un patto di gemellaggio nel 2021. Una seconda cosa che abbiamo imparato è il valore dell'intercessione. Don Giuseppe chiedeva di pregare moltissimo per la pace e ci teneva molto alla preghiera, per questo abbiamo dato vita a “Lampade per la pace”, un’iniziativa di preghiera, di meditazione, per la pace ma anche per educarci alla pace. Un terzo seme è nella morte di don Giuseppe insieme all'imprenditore Antonio Vassallo che si dichiarava esplicitamente laico. Loro due hanno saputo lavorare insieme per la salvezza della città, per il bene comune. E c’è anche un altro seme che vorremmo che fiorisse bene: don Giuseppe le ultime ore le ha vissute passando per la città, che oramai era incendiata, su un’autoblindo, benedicendo. Mentre don Mario muore assolvendo un anziano signore. È il seme del perdono di Dio, che vorremmo davvero portare a tutti.
Quanto è ancora viva la testimonianza di questi due sacerdoti?
È una testimonianza che è sempre più viva. Noi, tutto il cammino lo abbiamo potuto fare perché c'erano dei testimoni che avevano nel loro cuore, l’immagine, l’icona, di quello che è successo quel giorno, della dedizione di questi due sacerdoti. La loro vita parla, parla ai giovani, parla alle nostre comunità; il ricordo coinvolge tantissime persone. Anche la beatificazione è stata un momento in cui si è vista la comunità stringersi attorno a queste due figure e pure ad Antonio Vassallo. Per lui non è stato possibile pensare alla causa di beatificazione per rispetto proprio della sua laicità; la famiglia ha sempre tenuto a sottolineare questo aspetto e noi siamo contenti anche di averlo, in qualche modo, salvaguardato. E proprio lì la bellezza della memoria, che non appiattisce tutto, ma salva anche le differenze e le sa integrare in una visione comune.
A Boves sono nate diverse iniziative in seguito al martirio di don Giuseppe e don Mario, ce ne può parlare?
Boves ha pagato un caro tributo alla guerra, perché dopo il primo eccidio ce n’è stato un secondo, e un terzo ormai a liberazione avvenuta, quando ha perso 100 giovani in Russia. Quindi è stata davvero provata. Sono stati mesi terribili. Però ha saputo reagire con dignità, ricostruire, e nell’83 ha avuto l'intuizione, grazie al sindaco di allora, di istituire una scuola di pace, la prima in Italia. È stata fatta una grande opera di educazione alla pace. La memoria di questi sacerdoti ci ha pure portati a stringere contatti con Schondorf, ed è un contatto vivo e molto produttivo.
A 80 anni dalla morte di don Giuseppe di don Mario, avete istituito un premio intitolato a loro e all'imprenditore Antonio Vassallo ucciso, insieme a don Giuseppe, quale segno volete dare con questo riconoscimento?
È un premio che ha questo significato: vedere, scorgere, le tante iniziative orientate al bene comune. Perché tanti stanno lavorando per il bene comune. L'idea è quella di aprire gli occhi su tante persone, che magari nel silenzio, lavorano - e lavorano bene - per il bene comune. E allora vorremmo premiare queste persone.
Incamminandoci verso il Giubileo del 2025, che cosa ci dicono don Giuseppe e don Mario?
Penso che il titolo che il Papa ha pensato per il Giubileo è interessante: “Pellegrini di speranza”. Questi due sacerdoti li vedrei proprio così, come pellegrini di speranza. Loro hanno avuto la speranza e hanno avuto una fiducia cieca nell'amore di Dio, nella Misericordia di Dio. E hanno giocato tutte le loro carte e le migliori loro carte - il fatto dell'essere preti - in un contesto di violenza inaudita. Evidentemente questo l'hanno fatto perché si sono preparati tutta la vita, non l'hanno improvvisato. Il parroco quando è arrivato a Boves aveva scritto: "Vengo per 'verare' la gloria di Dio". Un verbo che noi oggi non usiamo più, ma è molto bello ed è interessante. E il viceparroco a 17 anni aveva scritto: "Diventare sacerdote, vivere da sacerdote, morire da sacerdote: questa è la speranza della mia vita". Quindi, loro per questo passo si erano preparati non solo intellettualmente, ma con una vita coerente, una vita di fede, e in quel momento hanno agito con tutta la fede, con tutta la speranza. E insegnano anche a noi. Tante volte, anche se non vediamo, forse è più importante che siamo pellegrini di speranza.
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