Padre Chiera: ascoltare il grido dei figli non amati
di Alessandro Gisotti
Non c’è ferita che l’amore non possa sanare. Non c’è vita, per quanto disperata, che non possa rinascere alla speranza. Animato da queste convinzioni, padre Renato Chiera, sacerdote piemontese fidei donum, vive in Brasile da 45 anni al fianco dei ragazzi scartati, dei meninos de rua, dei “figli non amati da nessuno”. A dispetto degli anni che passano, il fondatore della Casa do Menor - che ha avuto in monsignor Luigi Bettazzi uno dei suoi grandi ispiratori - non ha rallentato l’impegno d’amore per i suoi meninos: prima a Rio de Janeiro, poi a Fortaleza e in diverse altre città brasiliane. Arrivato a 80 anni, il missionario ha pensato bene di “regalarsi” una nuova missione e ora la sua opera è approdata anche nel continente africano, in Guinea Bissau. In questa intervista con i media vaticani, padre Renato Chiera condivide la sua esperienza e sottolinea che solo se rimettiamo l’amore al centro delle relazioni possiamo salvare l’umanità, a partire dai più piccoli.
Sono passati 37 anni dalla fondazione della Casa do Menor, nata significativamente il 12 ottobre 1986, nel giorno della Madonna di Aparecida, Patrona del Brasile. Da allora tanta strada percorsa, tantissimi bambini di strada accolti e recuperati alla vita, ma anche storie di dolore e sconfitte…
Noi siamo nati per accogliere il grido di chi non è amato, il grido di chi non si sente considerato da nessuno, di chi nessuno vede … Io dico sempre: noi siamo chiamati non a cambiare le persone, ma ad amarle, perché poi l’amore le cambia. E adesso abbiamo 5.000 bambini e ragazzi da noi, tutti i giorni. Dobbiamo vivere il nostro carisma che è il carisma di essere famiglia, essere famiglia per dare famiglia a chi non si sente amato da nessuno. Va ascoltato il grido per la presenza di amore. E’ un grido che c’è in tutto il mondo!
Ci sono tra i meninos de rua, ragazzi che una volta cresciuti sono ritornati a Casa do menor per aiutare chi li ha accolti quando erano piccoli?
Sì, noi abbiamo quasi tutti quelli che dirigono le Case do menor in Brasile che sono i nostri “ex”! E adesso abbiamo un fenomeno interessante: quello delle vocazioni. Questo è un fenomeno che mi impressiona perché, per esempio, da anni siamo nelle cracolandie: io ci vado, sono attratto da Gesù sulla Croce, che è sulla croce perché non è amato. Gesù abbandonato e crocifisso … e questi ragazzi, questi uomini sono questo! Andiamo là per essere la presenza dell’amore. Se diamo amore e se doniamo Dio-amore, loro resuscitano. Un fenomeno che non immaginavo è che da questi uomini di strada nascono le vocazioni! E noi abbiamo persone che sono trasformate dall’amore, dal Vangelo, dalla casa che noi diamo, dalla casa e dalla famiglia perché Casa do menor vuol dire famiglia per coloro che sono disprezzati. Questo amore è come un utero comunitario, così lo chiamo io, perché noi abbiamo questa dimensione di incubatrice.
Cosa vuol dire essere “incubatrice” di questi ragazzi di strada…
Questi ragazzi sono stati generati ma non hanno finito la gestazione perché non sono stati amati… e da noi trovano questa realtà, incontrano Dio non tanto perché noi parliamo di Dio, ma perché loro lo sentono attraverso il nostro amore! Noi evangelizziamo così: una nuova evangelizzazione, che è quella non tanto di parlare, ma di essere presenza, esserlo insieme. Avere la presenza di Lui, di Gesù tra noi, perché dove ci sono due o tre persone che si vogliono bene, lì c’è Gesù. Noi vediamo che nelle nostre case, nelle nostre officine, nei nostri corsi, negli spazi comunitari, mentre giocano a pallone, se c’è questa presenza, vedo che loro crescono.
Stiamo parlando di bambini, ragazzi, con una vita di sofferenza che probabilmente da quest’altra parte dell’Oceano nemmeno riusciamo a immaginare. Figli che non si sono stati amati dai propri genitori …
Per questo io dico che noi dobbiamo vivere la presenza di Dio tra noi, perché il nostro amore non riesce a capirli, i traumi che hanno … L’altro giorno ero a Fortaleza, ci hanno portato un bebè di due giorni e l’ho preso in braccio. Questi sono figli di mamme che usano crac, che tremano tutte e non riescono a dormire. Io l’ho preso in braccio e dicevo: cosa facciamo? Ma chi è capace di capire e sentire il dolore che loro hanno? Perché loro hanno segnato tutto dentro il loro inconscio, le ferite, i traumi … Io sentivo questa impotenza e dicevo: come si fa? E allora li stringevo al cuore e dicevo: dobbiamo avere l’amore di Dio tra noi, avere Lui che Lui tocchi questi cuori e che sani queste ferite. E’ per quello che noi diciamo sempre che dobbiamo essere famiglia per avere il Risorto tra noi.
Come si fa a mantenere la gioia nello stare accanto a questi ragazzi che portano una sofferenza, una violenza e una rabbia così grande?
Io riesco a convivere con questo dolore perché so che adesso ha un nome: è Gesù in Croce che entra nella mia vita per trasformarla. Allora io credo che questo dolore è tutto il dolore del parto che prepara a una nuova vita. E’ la creazione che geme i dolori del parto, come dice San Paolo. Vado nelle cracolandie, vado dove vendono la droga, vado a benedirli, faccio battesimi anche sotto i ponti … E loro mi abbracciano: io vado là per amare Gesù, e dico: “Ecco, lì c’è Gesù”, ma c’è un Gesù che è crocifisso, un Gesù che è ferito. Questo Gesù che è in me ama, trasforma queste persone! Io ho imparato a convivere con il “negativo”, perché noi siamo capaci di accettare tante cose se hanno un senso: conviviamo con il dolore, con il “negativo” se questo ha un senso e Gesù ha dato un senso, perché attraverso la croce ha generato vita. La motivazione è nella fede, altrimenti non ce la farei. Io, adesso, mi sento più vivo di quando sono andato in Brasile la prima volta, perché venendo a contatto con queste persone sento che cresco nel contatto con Dio e mi nasce un’energia enorme.
Nella esperienza di Casa do menor, di questi ragazzi feriti nel profondo, quanto conta il perdono?
Il perdono é necessario: senza questo non vai avanti! Questi ragazzi devono perdonare papà e mamma: questa è la cosa più difficile per loro perché hanno rabbia, c’è tanta rabbia, c’è odio … La violenza è il grido di chi non si sente figlio, di chi non ha prospettive di futuro. Quindi il perdono è una cura: senza questo non si va avanti. Io dico: tu hai i canali ostruiti – è l’odio – se non li stappi, non passa l’amore, non passa niente …
Perdonare, dunque, ma anche lasciarsi perdonare…
Sì. Bisogna perdonare sé stessi, perdonare chi ci ha fatto del male e “perdonare” Dio. Dobbiamo insegnare a “perdonare” Dio perché loro dicono: “Ma Signore cosa ho mai combinato per meritare questo?” Poi però cominciano a capire che tutto questo è un filo d’oro: queste persone che sono state nelle tenebre sentono di più che cos’è la luce e hanno una sensibilità religiosa nei riguardi di Dio molto forte. Loro hanno bisogno di incontrarsi con Qualcuno che li ami, “qualcuno” con la “q” maiuscola. Il rapporto è necessario per potere alzarsi. Sapere che hanno Qualcuno: sentire la presenza di Qualcuno, che mai ci abbandona. Io posso essere questa presenza, ma sono limitato: noi possiamo esserlo a livello comunitario, ma siamo limitati. Quando loro sentono, riescono ad avere questo rapporto con Dio, Qualcuno che li ama sempre, che è presenza stabile, allora trovano la forza per risorgere.
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