Michele Del Greco, testimone di resistenza pacifica al male
Roberta Barbi – Città del Vaticano
Ucciso per aver compiuto un’opera di misericordia: dare da mangiare agli affamati e da bere agli assetati. Per di più fuggiaschi, per di più in pericolo di vita. È questa l’unica colpa che portò il pastore abruzzese Michele Del Greco, una vita tra le montagne e le pecore, a essere condannato a morte a neppure cinquant’anni, sentenza eseguita la notte tra il 21 e il 22 dicembre 1943 alla Badia di Sulmona, trasformata dai nazisti in carcere per i prigionieri di guerra. A don Vittorio D’Orazio, il parroco che lo confessò poco prima di morire, disse: “Sa perché mi ritrovo in questa situazione? Perché ho fatto quello che voi mi avete sempre insegnato”. Un insegnamento di “quanto sia rivoluzionario essere fedeli al Vangelo, anche in condizioni difficili come queste in cui un gesto di umanità si scontra con il disumano, quando la legge degli uomini prende una strada troppo distante da quella del Signore”, afferma don Angelo Romano, sacerdote di Sant’Egidio e rettore della Basilica di San Bartolomeo all’Isola, sull’isola Tiberina a Roma.
Un uomo comune che ha dato la vita per gli altri
La storia di Michele Del Greco era già stata evidenziata dalla Commissione Nuovi Martiri istituita da Giovanni Paolo II in vista del Grande Giubileo del 2000 per indagare sul martirio cristiano del XX secolo; anche quest’anno Papa Francesco, per l'Anno Santo del 2025, ha istituito una commissione analoga, di cui il rettore di San Bartolomeo all’Isola fa parte: “La vicenda umana di Michele ricorda da vicino quella della famiglia polacca Ulma, da poco beatificata per aver nascosto alcuni ebrei sempre negli anni della seconda guerra mondiale – prosegue don Angelo Romano –, loro contadini e lui pastore: gente comune che non ha esitato a rischiare la vita per dare aiuto a chi si trovava in pericolo”.
“Quei lunghi trenta giorni”, l’amore della figlia in un libro
È il 22 novembre 1943 quando Michele viene seguito al pascolo e quindi fermato da alcuni ufficiali tedeschi. Pochi giorni dopo, il 27, la terribile sentenza di morte, annunciata da manifesti affissi in tutto il paese, uno dei quali è esposto oggi nel Memoriale sull’isola Tiberina. Passerà un mese prima che la sentenza diventi realtà: un mese in cui la famiglia spera, prega, implora. Un mese magistralmente raccontato molti anni dopo dalla figlia Raffaella, insegnante e scrittrice, nell’opera intitolata non a caso “Quei lunghi trenta giorni”, che ha ricevuto diversi premi nonché il plauso dell’allora presidente della Repubblica Carlo Azeglio Ciampi. Qui è riportata anche l’ultima lettera che Michele scrisse alla famiglia prima di essere ucciso: “Mia compagna cara, con la rassegnazione di Dio – scrive – io muoio perché ho commesso di aiutare la povera gente. (...) Raccomandatemi a tutti i Santi e alla Madonna della Libera che la tengo a cuore sempre cara”.
Raccontare i martiri è investire sulla memoria
Prendersi cura del prossimo, specie se in difficoltà: un insegnamento ancora attuale, quello di Michele Del Greco all’uomo di oggi, anche se la sua storia, come quella di molti altri martiri, nonostante gli sforzi viene dimenticata: “Bisogna far conoscere queste storie, raccontarle. Il Memoriale serve a questo, ma bisogna continuare a investire sulla memoria – conclude il rettore – la conoscenza dei testimoni della fede è importante e poi queste storie, pur nella loro tragicità, sono belle, sono esempi vivi di uomini come noi che hanno avuto la forza e il coraggio di opporsi al male con il bene”.
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