“Consacrata per il prossimo”: una suora medico ridà speranza a malati e migranti
Fabio Colagrande - Otranto
La scelta della vita religiosa per aiutare chi è nel bisogno. Una vocazione per la professione medica nata nell’ambito della vocazione alla vita consacrata, dopo essere partita giovanissima dall’Africa per arrivare in Sicilia e da lì in Lombardia. Una doppia vocazione realizzata nell’accoglienza dei migranti nel Mediterraneo e poi nella cura dei malati, cercando di dare speranza, nei mesi drammatici della pandemia. È la storia singolare di suor Angela Bipendu, religiosa della congregazione delle Discepole del Redentore, nata 49 anni fa nella Repubblica Democratica del Congo e oggi in servizio come medico di base a Bergamo, dopo due anni e mezzo trascorsi, come volontaria del Cisom (Corpo italiano di soccorso dell'Ordine di Malta) sulle navi della Guardia Costiera che salvavano vite umane monitorando le acque che dividono l’Italia dalle coste africane. Suor Angela è a Otranto per ricevere il Premio Caravella nell’ambito della XV edizione del Festival dei Giornalisti del Mediterraneo. Con la semplicità e l’imbarazzo di chi sente di non aver fatto nulla di straordinario, se non testimoniare Cristo, racconta la sua storia ai microfoni della Radio Vaticana.
Perché ha scelto la vita religiosa?
Sono consacrata ma non per me stessa. Sono consacrata per aiutare il prossimo che si trova nel bisogno. Il prossimo che ha bisogno di me come persona, come religiosa. Così è nata la mia vocazione, perché dovevo aiutare il prossimo. Quindi nella vita il motto che mi sono posta, o imposta, è quello di aiutare il prossimo, non aiutare me stessa. È per questo che quando sono arrivata in Italia, con l'aiuto della mia comunità, ho studiato per aiutare il prossimo in questo campo, la medicina. Da lì, quando mi sono laureata mi è arrivata la chiamata per andare a Lampedusa. Non mi ero mai imbarcata, né su un fiume, né sul mare, né niente. Mai stata su una nave, assolutamente. E da lì è partito tutto. Ho avuto così la possibilità di vivere un’esperienza importantissima nel salvataggio degli immigrati. Mi sono imbarcata per due anni e mezzo. Sono passata da Lampedusa e poi da tutti i porti italiani per sbarcare, imbarcare e poi sbarcare ancora lì immigrati. È un'esperienza che personalmente mi ha arricchito tantissimo, perché in questi due anni ho visto di tutto e di più. Ho visto nascere bambini sulle navi... Ma, in fondo, ho fatto quello che avrebbe fatto qualunque medico, qualunque suora in un caso simile. Pensavo forse di imbarcarmi per un mese, due mesi, invece no. Ho avuto sempre la voglia di andare oltre, di aiutare, di fare tutto quello che potevo.
Quali sono stati i momenti più duri ma anche quelli più luminosi di questa esperienza?
In tre anni mi sono imbarcata tantissime volte, avevo paure, angosce, però andavo avanti... I momenti più belli erano quelli in cui noi, con l'equipaggio della Guardia Costiera italiana, tiravamo su dal mare tutte le persone sopravvissute. Questa è stata una gioia. La parte più brutta, purtroppo, quando c'erano persone senza vita. Con loro, ovviamente, non potevo più dialogare, chiedergli come si chiamavano, da dove venivano... Per i sopravvissuti invece sì. Le loro identità diventavano per noi un numero che noi andavamo a segnare con colori diversi. Il colore era per loro già una vittoria, si sentivano riconosciuti. Un'altra cosa che mi ha colpito tantissimo in questa avventura è quando facevo loro delle domande, chiedevo perché prendevano così tanti rischi, visto che il viaggio è lungo e i mezzi di trasporto non sono adeguati. Loro mi dicevano che al 90% sapevano già che non sarebbero arrivati in porto e che la loro destinazione era la morte. Quindi, appena vedevano una possibilità di salvezza, una nave sul Mediterraneo, erano contentissimi. Il passaggio dai loro gommoni alle nostre navi, alle nostre unità, questi nostri fratelli non se lo scordano più, perché è un'emozione grande. Dalla morte sicura a una vita pure sicura.
Quando sente, legge, tanta indifferenza nei confronti di queste persone che spesso vengono trattate come numeri, cosa prova? Le verrebbe voglia di dire: venite un giorno con me su quella barca e poi ne riparliamo?
Sì, questo è vero, è molto più facile giudicare quello che noi non vediamo. Ma come religiosa, la mia prima missione, è quella di salvare vite umane, senza vedere come e perché sono in viaggio. Sarà qualcun altro poi a rispondere a queste domande. Il nostro obbiettivo, come equipaggio della Guardia Costiera era, prima di tutto, salvare una vita umana e poi il resto veniva dopo. “Da dove vieni? Come ti chiami? Il numero di tuo padre, tua madre e tuo zio, eccetera”. Quelle erano domande secondarie, secondo me. Essendo esseri umani, anche Gesù stesso ce lo dice, dobbiamo “amare il nostro prossimo come noi stessi”. Se c’è un essere umano in difficoltà, la prima cosa che faccio è non lasciarlo morire in mare. Io prima lo salvo e poi, se ci sono altre cose da fare, saranno fatte dopo......
Quali storie le hanno raccontato i migranti che ha incontrato?
Ho parlato con questi nostri fratelli che venivano in Italia. Spesso persone che fuggivano dalle guerre che sono in Africa, questo lo sappiamo benissimo. Ci sono persone che hanno venduto tutti i loro beni per attraversare il Mediterraneo, hanno dovuto pagare per ritrovarsi a fare una vita molto difficile in Libia, nei campi di concentramento. Quindi, partono già da lì con un trauma e arrivano con un trauma estremo. Un altro trauma nasce dal fatto che scelgono di imbarcarsi sui gommoni che sono mezzi proprio non sicuri. Su quei gommoni lì troviamo cento e passa persone. Per questo, tante volte, il peso delle persone fa cedere il fondo di legno dell’imbarcazione e imbarcano acqua. È lì che c'erano le morti.
Come è stato per lei scoprire questo intreccio tra la sua vocazione religiosa e la vocazione come medico? Quando si trova ad assistere i migranti, i malati, lei porta anche un'assistenza spirituale, allo stesso tempo...
Io direi che la mia vocazione è una vocazione nella vocazione o nelle vocazioni. A Bergamo, all'inizio della pandemia di Covid c'erano pochi strumenti per difendersi. Ho lavorato nella prima ondata più come suora che come medico. Perché come medico, purtroppo, non c'era niente da fare. Come suora, io ho portato agli ammalati un messaggio di speranza. Perché la persona che era colpita dal Covid pensava già direttamente alla morte. Quindi, io dovevo darle proprio un supporto spirituale per ricordarle che anche Gesù esiste. Il Covid esiste, però noi non possiamo cedere alla tentazione della disperazione e finire la nostra vita perché siamo positivi al Covid. Io, nel mio piccolo, ho svolto la missione che il Signore mi ha dato, che è quella di annunciare Gesù agli ammalati, ai disperati, a quelli che pensano che la vita non ha più senso. Dare proprio un conforto spirituale... E io l'ho fatto: ho dato consiglio, ho aiutato chi stava morendo, ci sono anche persone che sono morte tra le mie braccia. Mi hanno voluto proprio tenere accanto a loro. E poi sentivo, progressivamente, come mi lasciavano. In modo particolare mi ricordo di una signora che mi chiese: ‘sorella, mi dà la mano?”. E io gliel’ho data. E poi, man mano, sentivo proprio che mi rilasciava, e poi non ha respirato più. Mi sono ritrovata in quel momento ad accompagnarla pregando per lei.
L'ha accompagnata all'incontro col Signore....
Sì, fino all'ultimo respiro. E questo è una vocazione nella vocazione. Ripeto: io sono nata come religiosa perché ho visto come agiscono le suore. E da lì che mi sono decisa di farmi suora. Non per me stessa, però per gli altri. Se mi tolgono quello che sto facendo non so cosa potrò fare nella vita. Se non posso testimoniare Gesù con quello che faccio. Quindi quello che serve è la preghiera accompagnata da un'azione, che è quello che vuole il Signore da tutti noi.
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