Rohingya, le iniziative della Chiesa del Bangladesh per i rifugiati
di Paolo Affatato
«Ai rifugiati rohingya, che si trovano nel nostro territorio diocesano, cerchiamo di dare tutto il nostro appoggio. Quel che possiamo dire loro è: we care, ci importa di voi, ci prediamo cura di voi. Le parole del Papa ci ricordano costantemente e incoraggiano questo impegno». Padre Terence Rodrigues, vicario generale dell’arcidiocesi di Chattogram, ribadisce in un colloquio con L’Osservatore Romano l’attenzione della Chiesa locale verso la popolazione dei rohingya, oltre un milione di persone assiepate in campi profughi nel distretto di Cox’s bazar, nel Bangladesh orientale, dove si sono insediate nel 2017, fuggendo dalla persecuzione subita in Myanmar. Il Papa ha voluto ricordare la loro situazione nella prima udienza generale del nuovo anno, dicendo: «E non dimentichiamo i nostri fratelli rohingya che sono perseguitati».
Nel periodo natalizio la Chiesa non ha fatto mancare le iniziative di vicinanza e compassione verso questa gente di religione musulmana. «Come Chiesa locale facciamo opera di advocacy a livello nazionale e internazionale perché si restituisca loro una casa e la dignità», riferisce il vicario, raccontando della presenza di un sacerdote a Cox’s Bazar e di un religioso gesuita impegnato con il Jesuit Refugees Service. «Inoltre, tramite la Caritas diocesana e nazionale continuiamo a portare avanti progetti di assistenza umanitaria. È la strada per mostrare loro la nostra solidarietà e cura», osserva. «Negli ultimi anni la Caritas ha aiutato una media di 300 mila rohingya ogni anno. A Cox’s bazar operano numerose agenzie umanitarie: la situazione richiede un impegno e a lungo termine da parte della comunità internazionale per garantire ai rohingya sicurezza, dignità e futuro. Il Bangladesh li ha accolti ma ha bisogno del sostegno internazionale», rileva.
Come minoranza etnica di religione musulmana da secoli stanziata nello stato di Rakhine, nel Myanmar occidentale, nel 1982 una legge sulla nazionalità, applicata dalla giunta militare allora al potere in Myanmar, negò loro la cittadinanza, privandoli dei diritti e rendendoli di fatto “apolidi”. Stranieri nella loro stessa terra, nel 2017 le violenze dell’esercito birmano li hanno costretti a fuggire e ad attraversare il confine con il vicino Bangladesh. Da allora oltre 1,2 milioni di profughi risiedono nei campi allestiti a Cox’s Bazar, dove la maggior parte di loro non ha lo status ufficiale di “rifugiato”, che garantirebbe loro specifici diritti e tutele. In Bangladesh sono ufficialmente designati come «cittadini birmani sfollati con la forza». La vita nei 33 campi profughi è garantita dal governo bangladese tramite contributi di enti internazionali (come il Programma alimentare mondiale dell’Onu e la “Ngo platform of Cox’s Bazar”, composta da 148 associazioni), con limitate opportunità di sostentamento e di istruzione, di assistenza sanitaria.
Aggiunge padre Robert Hadima, sacerdote bangladese della diocesi di Mymensingh: «Sono proprio i reietti. Sono gli scartati. In principio, essendo musulmani, il popolo bangladese li aveva accolti con favore, considerandoli correligionari in stato di persecuzione. Ora sono passati sei anni e la situazione è cambiata. Gli aiuti internazionali diminuiscono, la nazione avverte il peso di questi profughi». E sono sorti nuovi problemi: «Per sopravvivere, i rohingya hanno rovinato appezzamenti di terreno col disboscamento. Le gang criminali hanno approfittato dello stato di precarietà di migliaia di persone. Alcuni parlano di traffico di droga. Si sono gradualmente diffusi in Bangladesh sentimenti piuttosto ostili. Gli stessi rifugiati hanno iniziato ad avvertire il peso insopportabile del prolungato disagio e hanno iniziato a fuggire. Hanno preso il mare e si sono diretti verso l’Indonesia, ma anche lì non sono benvenuti. È una situazione estremamente complessa», conferma padre Hadima, spiegando che i rohingya sono stati definiti, con un’espressione che sintetizza la loro storia e la loro vicenda, «il popolo che nessuno vuole».
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